lunedì 22 luglio 2013

Musik macht frei ? di Natale Anastasi




                                               
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"Penso che la cosa principale che un musicista vorrebbe fare sia dare all'ascoltatore un quadro delle tante cose meravigliose che conosce e sente nell'universo. Questo è ciò che la musica è per me: una delle maniere di dire che l'universo in cui viviamo, che ci è stato dato, è grande e bello".



John Coltrane






Ciò che segue è una mia personale riflessione sulla comunicazione negli ambienti artistici e didattici, partendo proprio dalla visione di questa breve intervista a Bob Marley e da questo estratto di John Coltrane.  Ho deciso di voler scrivere questo breve pensiero, con una piccola premessa d'intendimento linguistico alla base del discorso, per trasmettere qualche piccola riflessione in merito all'attività del musicista e per essere quanto più comprensibile possibile. 

Essere comprensibile appunto, essere chiaro ed essere conciso. Mi prefiggo questi tre obiettivi in questa sede. Queste "tre c" hanno per me un ruolo fondamentale per superare questa crisi odierna - dal mondo della "cultura" accademica a quella di strada - e su cui credo sarebbe opportuno aprire un dibattito, una piattaforma di discussione per evitare la dispersione e per cercare di superare insieme tutti i limiti che in parte qui espongo, sperando di favorire una lettura scorrevole e quanto più pragmatica possibile. 

Veniamo al dunque, ai perché, alle problematiche che vorrei prendere in esame. Partiamo dalla comunicazione, che come ben sappiamo è alla base di ogni rapporto. Dei buoni comunicatori riescono a trasmettere secondo me in modi appropriati al contesto ed ai contenuti le idee che hanno in mente. 

Dei pessimi comunicatori, per quanto possano o meno essersi impegnati, magari invece vorrebbero comunicarsi agli altri ma non vi riescono come vorrebbero, generando magari dei fraintendimenti o lasciando fin troppi spiragli a rappresentazioni mentali dei discorsi che potrebbero essere addirittura in antitesi fra di loro, nascosti da presupposizioni, dal credere che tutti intendano ciò che vogliamo esprimere in quanto per noi i termini in discussione paiano "ovvi", "scontati", "culturalmente evidenti", intuitivi insomma. Stiamo attenti però, le parole, i significanti hanno senso solo se noi diamo il codice specifico, chiarificando il campo di esistenza con un linguaggio quanto più possibile scevro, ma non per questo mediocre o povero, da tautologie o da espressioni che culturalmente vengono esemplificate solo dal singolo, ma che però sono presenti del gergo comune in molteplici accezioni. Ad esempio le parole "Dio", "intelligenza", "bene" e via discorrendo. Intesi in che senso?  

Già di per sé più si utilizzano termini di questo genere, più infarciamo le nostre discussioni di incomprensibilità, in cui magari gli interlocutori credono di essersi capiti, salutandosi dopo aver sostenuto una chiacchierata, o un esame universitario, credendo che siano stati capiti dall'altra persona e di aver capito esattamente nel modo in cui il nostro interlocutore intendeva spiegarci le sue idee. Bisognerebbe quindi tener d'occhio il lessico convenzionale. 

E' proprio come se adesso pensassimo di aver capito la discussione in ballo o se avessimo storto il naso per la forma arzigogolata o per l'espressione infelice "lessico convenzionale". 

Ecco, consideriamo che non ho ancora illustrato nel dettaglio cosa intendo, quindi anche qui forse sarebbe sparare prima che parta il piattello. Non ho scritto poi che sia meno convenzionale ciò che scriverò, ma almeno tenterò di dare un'interpretazione per superare qualche aporia di quelle sopracitate.  Se fosse arrogante questa proposta, in tale ragionamento non saprei cosa poi intendere con "arroganza", non so (e dico davvero) per un problema di palato, di tatto, di olfatto, di udito, di vista, degli schemi concettuali che la parola dovrebbe evocare ma che in quanto espressa per se medesima si presenterebbe ai miei occhi con lo statuto di "tautologia".  

Tutti i sei sensi (includo anche la forma del mentale) che io sono, saranno pur sempre diversi dai tuoi, cara lettrice e caro lettore. Secondo me quindi è come se ogni dato passasse da tutti questi canali percettivi e poi dopo un'equazione uscisse un risultato di cui però all'inizio si sa che deve dare un determinato risultato e alla fine a prescindere,  dobbiamo approssimarlo in base alla convenzione linguistica della comunità a cui sentiamo di appartenere. 

Come appunto se tiriamo in ballo la parola "solipsismo":  partiamo per dire dall'aver visto la definizione sul dizionario,  oppure "come i pappagalli" dall'averla sentita in un contesto e averla ripetuta credendo si approssimi bene ad una data situazione generica basata su una serie di esempi pratici in cui l'abbiamo vista in uso come forma di giudizio e in cui abbiamo cominciato ad utilizzarla, credendo fosse giusta quella data approssimazione. Le parole quindi mi sembrano in tale esempio come se fossero la chora da cui plasmare non solo la scatola cranica, ma anche lo scheletro, su cui poi cerchiamo di assimilare le sostanze che stabilizzano l'archetipo alla base (la premessa della nostra proposizione, il nostro dna concettuale), le convenzioni morali (la spina dorsale) e la forza dei giudizi nelle gambe e nei muscoli. Credo che gli studi recenti di neuroscienze forniscano esempi specifici su cui poter approfondire maggiormente, se si ha voglia.


Adesso sappiamo anche che il linguaggio non verbale è influenzato da quello verbale e viceversa. Lasciamo aperta questa parentesi senza dare risoluzioni, sono aperte le possibilità, risposte libere affinché il pensiero divergente possa creare, fantasticare su questi aspetti. 
Andiamo quindi velocemente, sperando che non ci fermi qualche carabiniere per un eccesso di velocità, e passiamo alla creazione, alla poiesi. Il nostro modo di interloquire con le nostre energie determina il nostro modo di presentarci al Mondo. Nell'arte vediamo il clou di questo laborioso processo che spesso agisce silenziosamente, con movimenti involontari, spontaneamente.  



Prestiamo dunque attenzione alle energie che comunichiamo tramite questo grande connettore sociale che è la Musica. Potremmo amplificare le energie a disposizione per far stare bene gli altri, o per farli stare male. E senza controllo rischiamo di nuocere -senza accorgercene- alla società trasferendo le proprie nevrosi al pubblico che ci ascolta. Il pubblico non è la spugna dei nostri difetti. Attenzione però, non ho pretese di indicare verità assolute, né di mandare all'inferno nessuno: sia chiaro!

Dati quindi i tempi di crisi non economica, ma umana, in cui ci troviamo, con un pò di autocritica, penso si debba tenere sempre presente la propria salute psichica, risolvere gli eventuali psicodrammi personali, e solo successivamente porsi in comunicazione con entusiasmo, con la forza di Dio dentro noi stessi donata agli altri, nel migliore dei modi. La musica è come l'arte della maieutica di Socrate: un dialogo. Input, output.


Difatti se la musica è comunicazione, dialogo allo stato puro, e non la ripetizione a memoria dei soliti pattern linguistici, chiediamoci come venga trasmessa alle nuove generazioni. Spesso è facile notare in un pessimo insegnante (ed un pessimo allievo) delle mancanze empatiche e non solo per via dei contenuti che può aver studiato in maniera non sufficiente (che non determinerebbero il suo grado d'ignoranza, ma il suo livello di presunzione).  Un pessimo insegnante, un pessimo conservatorio, una pessima scuola di musica che non tengano conto di questi fondamentali aspetti della comunicazione, rischiano quindi d'influenzare negativamente coloro che incontreranno, costruendo paradigmi o rafforzando già quelli preesistenti. Ed essere reputati degli ottimi strumentisti non implica direttamente aver a disposizione un chiaro, comprensibile e conciso metodo didattico che sia privo di manuali statali, ma che verta su una specifica direzione in base all'indole del discente. 


Non basta solo studiare musica, andare a lezione al conservatorio, per essere degli ottimi comunicatori: serve una storia, una narrazione personale non fine a se stessa, ma utile al miglioramento e all'evoluzione del Mondo. Una narrazione che sappia fare il sunto delle esigenze collettive di questo tempo, che sappia mettere dinanzi alle persone ciò che il linguaggio verbale esclude. Le nostre azioni hanno una rilevanza maggiore proprio perché agiamo tramite le frequenze, agiamo sull'inconscio collettivo e determiniamo l'ambiente sonoro dei luoghi in cui ci esibiamo. L'armonia non è sui libri!

Non serve invece uccidersi di perfezionismo, di discussioni tecniche, di giudizi estetici sulle produzioni proprie ed altrui, e nemmeno lobotomizzarsi a furia di domandarsi se si è talentuosi o meno e se si è più o meno più bravi degli altri. Spesso, per non dire quasi sempre, i giudizi espressi dai musicisti su altri musicisti sono condizionati da tutto il possibile ed inimmaginabile fuoché proprio dalla musica stessa. Invidie, chiacchiericci, gelosie, antipatie, chi più ne ha più ne metta! Sono condizionate tutte da un latente stato d'inferiorità verso gli altri, da una difficoltà empatica col pubblico e prima di tutto con se stessi. Non conoscono la propria musicalità: sono analfabeti di loro stessi. 


Se volete chiedere dei giudizi su come suonate va bene, ma chiedetelo solo a chi non vive per dare giudizi sugli altri e che non freme per avere l'occasione per esprimere un giudizio (simbolo di potere) su di voi. E' un nutrirsi del potere, perché non si sentono più le melodie, e ogni cosa pare banale e noiosa. Una canzone di tre accordi con una melodia semplicissima, per chi studia troppo, diventa una scemenza. Alienazione nella musica. 

Il metro di giudizio quindi per un musicista resta il suo pubblico, gli altri fanno chiacchiere perse. Che siano reputati dei grandi, degli ottimi musicisti, prima di tutto restano degli ascoltatori, che parlano solo per ciò che sentono loro. I maestri di vita o sono tutti o non lo è nessuno.



                                          


Dimentichiamo le finte lezioni dei finti maestri che abbiamo avuto intorno su come si debba fare musica. La superbia, la presunzione, ed il moralismo sono le malattie dei perdenti, degli eterni sconfitti. Chi giudica sempre l'operato altrui, evita di spendere energie per se stesso. Ma alla fine la qualità della propria vita ne risente. Al di là di quante maschere si possano indossare (che restano pur sempre ideali, illusorie) il volto sarà espressione dei solchi della sofferenza e dei problemi irrisolti. Al di là delle parole i nostri unici giudici saranno le nostre azioni.

Stesso discorso per chi vive continuamente nell'immedesimazione dell'altro e del suo operato. Che sia per rispetto, per ammirazione, per devozione: il risultato non cambia. Sono espressione della mancanza d'appartenenza, del Sé.

Lascio tutto volutamente in via generica, niente trattati, affinché ognuno possa fare come meglio crede l'interpretazione adeguata alla propria vita. 

Chiarificate, fate mente locale. Chiediamoci perché suoniamo: se per diletto, perché è di moda, per socializzare, perché non si sa che altro fare, perché "è un peccato mollare dopo anni di studio", ecc. O se è per una missione civica. 


Scriveva Pirandello: "a quanti uomini, presi nel gorgo d'una passione, oppure oppressi, schiacciati dalla tristezza, dalla miseria, farebbe bene pensare che c'è sopra il soffitto il cielo, e che nel cielo ci sono le stelle. Anche se l'esserci delle stelle non ispirasse a loro un conforto religioso, contemplandole, s'inabissa la nostra inferma piccolezza, sparisce nella vacuità degli spazi, e non può non sembrarci misera e vana ogni ragione di tormento".

"La semplicità è l'essenza dell'universalità": se c'è questa prerogativa, al resto pensa lei, che della musica è l'ispiratrice! E' la Musa!







sabato 13 luglio 2013

Le stagioni della vita, opera di Franco Conti Santamaria



Le stagioni della vita, di Franco Conti Santamaria. Olio su tela, (1mx1,50m)
Clicca su Play per il sottofondo musicale


“Le stagioni della vita” è l’ultima opera del pittore niscemese Franco Conti, in arte “Santamaria”. È realizzato interamente ad olio su tela (1m x 1,5m).

Spesso in una tela si dipinge una vita, si trascorre e rimembra una vita o la si ha da immaginare in un tempo futuro. Riecheggiare se stessi in un dipinto, in una scultura, in un passo musicale, questo è ciò che permette l’arte.


Il dipinto è scisso dall'autore in quattro ordini comuni ad ognuno, l’infanzia, la giovinezza, la maturità, la vecchiaia. Quattro punti cardinali in cui possiamo rimembrare le nostre esperienze, le nostre gesta: dai semplici e spensierati giochi vissuti da bambini alla potenza e all'energia che sprigiona la giovinezza, dalla maturità e compiutezza di se stessi fino alle colonne in rovina della propria esistenza.

Particolare dell'infanzia; scena che ritrae un battibecco tra fanciulli 
che giocano con un pallone. Il fiore sbocciato, simbolo della fanciullezza. 

Particolare della giovinezza; scena di un giovane che abbraccia il mondo.
I cavalli, nella Piana di Gela vista dal Belvedere di Niscemi, rappresentano
la forza e l'energia del giovane. 

Particolare della maturità; colonne erette in uno scenario metafisico
 come simbolo di compiutezza della propria vita. La scala è il passo 
verso l'ultimo stadio della vita. 

Particolare della vecchiaia; un vecchio aspetta l'oscurità totale 
come quella della Luna. Alle sua spalle le colonne distrutte, 
simbolo della morte e del finire dei giorni. La tenaglia simbolo
di lotta per la vita e la leggerezza di una piuma, che solo la morte 
riesce a recare. 




Ma ecco un volto centrale, mascherato, anonimo, espressione unanime di un osservatore che giudica le proprie gesta e il continuo chiedersi esistenziale. La maschera è un elemento costante della visione del dipinto; la si tolga e si compia se stessi nei propri costrutti; la si tolga e si veda la propria vita in questa tela. Rividi ancora una volta la delusione nei suoi occhi, nessuno è profeta nella propria patria mi disse; rimarrà solo il ricordo di una tela e di una vita, e nient’altro.



Francesco Conti.

lunedì 8 luglio 2013

Perché non ha senso iscriversi a Filosofia, di Natale Anastasi

Qui di seguito commento l'articolo di Diego Fusaro, "Perché ha senso iscriversi a Filosofia".

Mi annoiano sin troppo ormai queste classiche espressioni di autoreferenza secondo cui studiare filosofia nobiliti l'animo e renda la persona socialmente interessante a priori, perché la filosofia dovrebbe essere la 'scienza prima'. Motivo per cui ho deciso di scrivere la mia personale opinione. Del resto, queste posizioni primitive, non posso non criticarle. Nulla di personale, sia chiaro. 




Vorrei analizzare un attimo quanto scritto: 

«Scegliere un buon ateneo, con professori noti, che scrivano libri, articoli e partecipino al dibattito contemporaneo: vuol dire che il pensiero che ti insegnano è concreto, calato nella realtà. Questo aiuta poi a trovare la seconda delle condizioni favorevoli: un buon maestro».


Trovo che scegliere un buon ateneo, nel contesto italiano, sia un pò tautologico. Questo in considerazione dell'abilitazione all'insegnamento, della scrittura di articoli, libri e di partecipazione al "dibattito contemporaneo". Ciò è evidente se si segue difatti bene la crisi odierna e i risultati alquanto opinabili dell'altrettanto opinabile tfa, o della crisi nel mondo della stampa, delle incredibili prove per il patentino da giornalista. Scrivere nelle riviste, in quelle assolutamente LIBERE e DEMOCRATICHE, in cui si può scrivere senza nessuna censura e senza nessuna imposizione, non credo sia una fonte di reddito, anzi è fare la fame. 

E poi: il mercato dell'editoria per quanto riguarda la letteratura filosofica è inutile negare quanto faccia acqua da tutte le parti. Soprattutto per quanto concerne le pubblicazioni inedite e non le solite declinazioni dei soliti paradigmi della filosofia classica (scrivere di Hegel, Marx, Platone, Heidegger, Aristotele, ecc.). 

Inoltre se "la filosofia non serve", caro Diego Fusaro, il pensiero può davvero essere concreto? Mi sembra "realmente" una contraddizione in termini. Mi sembra un paradosso. "Che sia calato nella realtà", mi sembra anche questa un'espressione assai vaga, che lascerebbe intendere una sola visione da applicare come evidente alle mille strutture che, in quanto dinamiche, per definizione, non possono essere racchiuse in un'ideologia ferma e 'macrostrutturale'. Chi dice cosa sia la realtà, e chi dice che il "dibattito contemporaneo" debba essere seguito, contemporaneo per chi poi? Per il San Raffaele? 

Mi sembra che manchi il pluralismo, e che vi sia solo un tentativo di rafforzamento delle auctoritates dominanti e dell'ideologia imperalista e liberale che ha generato e continua ad alimentare questa crisi economica! Ricordiamo il baronaggio, ricordiamo Norman Zarcone per un attimo. 

Mi sembra una visione un pò troppo generalista e semplicistica. 

Ed è innegabile che non tutti possano accontentarsi di lavorare da storici della filosofia accademica. Vogliamo inoltre negare o vogliamo considerare in modo adeguato che le facoltà di filosofia si ergono ancora su un sistema scolastico primo novecentesco - di stampo fascista - e continuano a propinare una cultura in pillole a dosi di manuali e manuali? Non tutti gli studenti possono accontentarsi di avere così pochi corsi di studio, con dei programmi scelti esclusivamente dai professori, su cui non si ha quasi per nulla voce in capitolo e così chiusi alle prospettive diverse da quelle ormai territoriali. 

Che si sia rimasti indietro sia sul campo della ricerca che sul campo dello studio critico, mi sembra anche questo un dato innegabile. Siamo ancora affetti, in molti casi, e senza generalizzare, secondo me, dallo "storicismo idealista hegeliano" e tanto "varrebbe" prenderne atto. E non tutti, proprio perché la filosofia secondo alcuni apre la mente, possono ragionare secondo gli schemi di questa logica. 

“C’è chi si perde nel deserto perché con il pensiero è rimasto nel mondo, e c’è chi si salva perché, pur essendo nel mondo, è nel deserto con il pensiero”.

In Italia dovremmo prendere in esame altre realtà storiche come Eraclito, Gorgia, Wittgenstein, Nietzsche, Jung, che personalmente ritengo possano essere interessanti sia come spunti di riflessione sia per una critica INEDITA ED ATTUALE della nostra contemporaneità e che invece mi sembra vengano tramandati secondo visioni uniche; visioni ad una sola direzione più per mantenere in auge i soliti volti noti che per la divulgazione del sapere (il pensiero di x era che...). Lo stesso per la critica all'economia marxista: in quale università si studia il fenomeno del signoraggio? O siamo ancora fermi alla dialettica servo-padrone e a ciò che "realmente" si voleva comunicare nel secolo decimonono?

Vogliamo inoltre parlare delle gravissime mancanze della filosofia accademica in merito alle ricerche della fisica quantistica, della biologia, della psicologia, e del pensiero orientale?

E per non restare nel vago, posto un Manifesto che scrissi con un collega circa la situazione della nostra facoltà. Si consiglia inoltre anche questa lettura sulla situazione che vive l'Università italiana oggi. 

Aggiungerei in chiusura che non è l'indirizzo scelto a determinare il presente ed il futuro delle proprie inclinazioni ! Studiare si può benissimo da soli, si evitano le influenze esterne indesiderate e si può approfondire adeguatamente il proprio percorso.  

Sarei altamente curioso di sentire se nelle altre città le dinamiche sono diverse da quelle che critichiamo noi. E chissà cosa direbbero Don Verzè e soprattutto....Norman Zarcone a riguardo !


"Quando un uomo comune, attinge alla conoscenza, è un saggio; quando un saggio attinge alla comprensione, è un uomo comune." (Detto zen)




venerdì 5 luglio 2013

"Dimmi ciò che escludi e ti dirò chi sei", sull'Immaginazione di Natale Anastasi



"L'immaginazione è più importante della conoscenza. La conoscenza è limitata, l'immaginazione abbraccia il mondo, stimolando il progresso, facendo nascere l'evoluzione."




Albert Einstein

                                                             


Se l'immaginazione non è spontanea sembrerebbe allora più simile, se non identicamente formulabile, ad un paradigma/postulato. Se tenti di spiegare ad esempio "il nulla", o ad immaginartelo con un'ossatura specifica, scriveresti o leggeresti una poesia su di esso ?
Ed inoltre: se l'immaginazione sembra un rapporto tra pensiero divergente, paradossi, intuizione immediata e associazione libera, direi anche che vi potrebbero essere molteplici gradi di immaginazione in base alla particolarizzazione delle forme che vengono create.

Un conto è "pensare" tramite "idee", un conto è "dar senso" e “spiegazione” al fatto di "pensare tramite idee". Niente logica, non direi, perché l’immaginazione crea anche la logica: avviene però anche il contrario ? La logica, per definizione, include le escludenze. Non le esclude. Pensiamo ai tre principi della logica aristotelica! Tramite l’immaginazione semmai sembra di poter constatare un decadimento di una forma logica dominante che fa da struttura ai nostri pensieri scolarizzati e secolarizzati. Io personalmente ricordo che da bambino non pensavo alla definizione di idea, inoltre.

                                                 "Nella logica pura, la penna non deve mai staccarsi dal foglio."

Riflettere sull'immaginazione sembra come porsi la domanda del koan zen: che suono ha una sola mano che applaude ? Darvi una risposta di "senso" è la logica, l'esclusione, la pars pro toto. O pro Totò. Darvi una risposta con la prima cosa che "si pensi" è per me l'immaginazione.
Non è nemmeno casuale che Eraclito comunicasse tramite enigmi, che Platone si esprimesse tramite esempi metaforici in forma dialogica e che i "pensatori arcaici" scrivessero in versi, in forma poetica. Pensiamo a Parmenide o agli scritti orfici, eleusini (si consiglia la lettura de La sapienza greca vol. I e II, di Giorgio Colli).

Poi invece arrivò Aristotele e nacque Il Principio d'Individuazione!

"Dimmi ciò che escludi e ti dirò chi sei": che gioco... dell'assurdo!

                                                                       


   




sabato 20 aprile 2013

L’etica ed Internet: i social network dell’ Homo Sapiens 2.0, di Natale Anastasi





Sin dai primordi, l’uomo si è sempre chiesto come poter comunicare nel modo più opportuno coi propri simili, cercando di stabilire dei rapporti fecondi e di scandire il proprio tempo sia mondano, che lavorativo, codificando delle forme linguistiche opportune alle condizioni di vita in cui si trovava. Varie osservazioni nel corso della storia occidentale hanno appunto portato l’uomo alla scoperta della scrittura, alla formulazione dei primi linguaggi tribali, costituitisi poi nelle espressioni di uso comune, per potersi intendere e svolgere le proprie attività.
L’homo sapiens perciò, sia per diletto che per necessità (homo faber), decise di utilizzare dei canoni e dei mezzi universalmente condivisi per il trasferimento delle informazioni (sia culturali, che più strettamente essenziali al quotidiano). Pensiamo appunto alla nascita dei libri, delle lettere, del giornale, ed oggi alla grande invenzione del computer. Tramite appunto questa machina computenda, come direbbero i romani, ciò accadde proprio sin dai conflitti mondiali in cui alcuni uomini vennero assoldati per elaborare veloci calcoli matematici per decriptare i messaggi nemici (pensiamo ad Alan Turing, passato alla storia per aver salvato l’esercito degli alleati in numerosi conflitti contro i tedeschi) .

Oggi quindi questa macchina “portentosa”, per nulla una black box come alcuni vorrebbe ancora intenderla, ci aiuta sia nei calcoli, sia nelle comunicazioni, e soprattutto – un aspetto in cui la ricerca mondiale sta approfondendo in questo periodo storico – nella possibilità di effettuare delle simulazioni che possano meglio farci comprendere le realtà in cui siamo immersi. Pensiamo alla meteorologia, con gli innumerevoli calcoli che vengono eseguiti per aiutarci a prevedere attraverso certi dati che immettiamo nel sistema, quali effetti si potrebbero generare.

Inoltre, essendo questa velocità nello stabilire dei calcoli probabilistici così tanto fondamentale ai giorni nostri per poter effettuare determinate azioni che adesso sembrano davvero essenziali e immediate, è cambiato anche il modo in cui l’homo sapiens si rapporta con questa nuova capacità di ottenere informazioni, di comunicarle a sua volta, e di immetterle nel sistema per poterne trarre giovamento.
L’invenzione di internet proprio per questi motivi, porta sia delle meravigliose possibilità per poter aggiornare il proprio sapere, di tenersi in contatto istantaneamente con i nostri amici, parenti, in ogni parte del mondo, ma dall’altro genera un meccanismo ricorsivo in cui il mondo può davvero entrare a casa nostra, spiarci ed annullare ogni possibilità di avere una “vita privata”. Pensiamo in tutto ciò all’avvento dei social network, ai vari Facebook, Twitter, Skype, che mettono in connessione in tutto il mondo 1/3 della popolazione globale. Tutti possiamo tenerci in contatto fra di noi.
Possiamo scriverci, mandarci video, foto, comunicare i nostri stati d’animo, le nostre passioni, i nostri hobby, il nostro pensiero, i nostri orientamenti politici, sessuali, ecc., e far sì che si allarghi sempre più questa rete. Possiamo - e questo è un aspetto molto rilevante per queste aziende quotate in borsa - invitare i nostri cari a iscriversi anche loro sui social network, così da essere tutti più “vicini”.

Ma ovviamente, anche se queste possibilità sono gratuite, ogni azione che noi compiamo è calibrata da delle convenienze: nessuno in tal caso dà nulla in cambio di nulla. Non vi è un’autentica gratuità. Pertanto dobbiamo constatare che, sebbene noi non paghiamo per chattare, scrivere, e comunicare con tutti, noi indirettamente rappresentiamo con esattezza, glaciale, macchinica, e deturpante, la merce su cui vive il social network, ed internet stesso.
Alle grandi innovazioni paghiamo in libertà, privacy, morale, sebbene riceviamo in cambio gli aspetti convenienti sopra esposti. Noi siamo la merce su cui vive il mercato mondiale di queste aziende (pensiamo anche al colosso Google). Queste aziende fatturano miliardi ogni anno sfruttando le informazioni che immettiamo nel circolo del sistema, che vengono poi raccolte per essere, e senza alcuna sicurezza possibile, vendute alle aziende pubblicitarie, ai partiti politici, alle banche, a chiunque possa interessare pagare il “giusto prezzo” per comprare la nostra “identità”.

Queste informazioni finora scritte sono ben raccolte in una puntata della trasmissione Report sui social network ed in particolar modo su Facebook. Nella serie d’interviste, in cui a parlare sono proprio i gestori di Facebook, di Google, e vari tecnici informatici, tra cui Marisa Marraffino, avvocato, ormai molto nota per essersi occupata nel suo testo “Come non perdere il lavoro, la faccia e l’amore al tempo di facebook” di vari casi di uso improprio del social network e dei rischi in cui può incorrere la persona sprovveduta. Vari casi possiamo trovare da lei esposti che possono essere presi ad insegnamento per evitare errori anche gravi.

Possiamo quindi constatare come sia davvero estremamente facile intromettersi nelle vite altrui per spiare, rubare, contenuti non protetti che possono essere oggetti, nella minore gravità, alle burla di qualche persona interessata alla goliardata (pensiamo al furto delle foto) oppure ben più grave al furto delle passwords dei nostri indirizzi di posta elettronica, in cui possono essere contenute anche i codici dei nostri conti correnti, le informazioni riguardo alla nostra professione, che possono essere rubate da qualche hacker per prosciugare il conto in banca della vittima, o per spacciarsi per essa coi suoi amici, mandando messaggi fasulli per gli scopi più vili.

Non è concessa alcuna ingenuità pertanto, sin dal momento in cui accendiamo il nostro pc di casa. Si pone quindi necessario il problema etico di formalizzare un codice, o meglio, una pluralità di modus operandi corretti nei confronti degli altri, affinché questo cittadinanza virtuale non arrechi con sé la nostra fine o l’inizio di un’attività criminale. Con questo intento Luciano Floridi, uno dei maggiori esperti della filosofia dell'informazione, nonché inventore del termine infosfera, che formula sul modello dei dieci comandamenti biblici, altrettante dieci norme etiche per la vita in rete, fondamentali per l’etica del computer, ossia:

1. Non utilizzare un computer per danneggiare altre persone. 

2. Non interferire con il lavoro al computer degli altri. 
3. Non curiosare nei file degli altri.
4. Non utilizzare un computer per rubare.
5. Non utilizzare un computer per ingannare. 
6. Non utilizzare o copiare software che non hai pagato. 
7. Non utilizzare le risorse dei computer di altri senza autorizzazione. 
8. Non appropriarti della produzione intellettuale degli altri. 
9. Pensa alle conseguenze sociali del programma che scrivi. 
10. Usa il computer in modo da mostrare considerazione e rispetto.


Come esposto inoltre su wikipedia: “I dieci comandamenti dell’etica del computer furono creati nel 1992 dal Computer Ethics Institute. I comandamenti furono introdotti nel documento “In Pursuit of a 'Ten Commandments' for Computer Ethics” di Ramon C. Barquin come un mezzo per creare una serie di norme per guidare e istruire la gente ad un uso etico del computer.[1] I dieci comandamenti dell’etica del computer ricalcano lo stile dei dieci comandamenti della bibbia. 
I comandamenti sono stati ampiamente citati nella letteratura etica[2] ma sono anche stati criticati sia dalle comunità di hacker[3] che da alcune università. Per esempio, il dr.Ben Fairweather del Centre for Computing and Social Responsibility li ha descritti come semplicistici e molto restrittivi.[4] Il CISSP (un'organizzazione professionale di sicurezza del computer) ha usato i comandamenti come fondamento per le sue regole etiche.”

E’ per tutti questi rischi in cui si può incorrere, ma soprattutto per via delle continue violazioni della privacy e per la mancanza di sicurezza nei contenuti che si condividono, che sono nati dei modi per distruggere queste identità virtuali. Delle forme di suicidio vere e proprie: chiamasi appunto Seppukoo e Suicide Machine.
Il primo riprendendo la tradizione giapponese del suicidio per onore, il colpo mortale che i samurai si auto infliggevano per espiare delle gravi colpe di cui si sentivano macchiati, permette agli utenti che vogliono sparire dalla circolazione di cancellarsi a tutti gli effetti distruggendo tutti i dati disponibili su di loro nei social network come Facebook, Myspace, LinkedIn e Twitter, attraverso
una procedura automatica. E nell’attesa che la battaglia legale tra i responsabili di questi due siti e Facebook, quest’ultimo ha bloccato l'accesso al proprio network dai due siti, rendendoli così inefficaci. 

Espongo di seguito alcune citazioni provenienti dall’articolo di Repubblica del 12 genaio del 2010:

(http://www.repubblica.it/tecnologia/2010/01/12/news/facebook_cancellazione-1922071/).

“Creato da Les Liens Invisibles (Le Connessioni Invisibili), gruppo di net artisti italiani formato da Clemente Pestelli e Gionatan Quintini, Seppukoo permette agli utenti di cancellare il proprio profilo seguendo una procedura "ritualizzata" (il seppuku è il suicidio rituale dei samurai giapponesi). Per effettuarlo l'utente Facebook inserisce il proprio nome utente e password su Seppukoo.com, compone una pagina Web con cui essere ricordato/a, e scrive un biglietto d'addio. Il servizio disattiva l'account, spedisce le sue ultime parole al suo intero network di amici, e gli attribuisce un punteggio. Quanti più amici dell'utente suicidato decidono di imitare il suo gesto, tanto più l'utente ottiene un punteggio alto su Seppukoo.com - un meccanismo volto a incentivare il carattere virale dell'azione. Nel giro di poche settimane infatti, e prima dello stop di Facebook, Seppukoo avrebbe disconnesso circa ventimila utenti. Effettuata la rimozione, il servizio consentiva comunque agli utenti di riattivare il proprio profilo.”
Invece il secondo, Suicide Machine è ancora più efficace in quanto evita che l’utente possa volersi riappropriare dell’account, in quanto il programma modifica la password e procede alla cancellazione, inviando come anche Seppukoo fa, un messaggio in cui gli amici della persona “suicidata” vengono avvisati ed invitati ad imitare il gesto.
“Suicide Machine, una piattaforma lanciata da poche settimane da Moddr Lab, laboratorio multimediale di stanza a Rotterdam, coordinato dall'artista austriaco di origini bosniache Goran Savicic. In questo caso, una volta lanciata la Suicide Machine, gli utenti non possono più tornare indietro. Il programma inizia cambiando la password utente (il che significa che diventa impossibile riattivare il proprio account Facebook) e la foto del profilo utente. Poi procede alla rimozione di tutti i suoi amici, dei gruppi cui è iscritto e di tutti i suoi post. Infine, crea una pagina di commemorazione con una foto e poche parole d'addio e, per chi loro richiede, un video-ricordo del processo di cancellazione. Inoltre la Suicide Machine permette agli utenti di disconnettersi anche da Myspace, LinkedIn e Twitter. Ma a differenza di Seppukoo, e probabilmente per il carattere irreversibile dell'azione, la Suicide Machine avrebbe disconnesso finora "solo" 900 utenti, un numero che dopo lo stop di Facebook, arrivato nei primi giorni del 2010, non sembra destinato a salire di molto.”

Questo ovviamente non può giovare positivamente all’azienda, anzi all’impero di Zuckerberg & co. che comunque non detiene la totalità delle azioni, ma viene finanziato costantemente da grandi magnati miliardari nonché vede tra gli azionisti di maggioranza i servizi segreti americani. Per questo l’azienda Facebook ha deciso di tutelarsi mandando in tribunale queste macchine del suicidio, di cui la prima ricordiamo che è italiana .
“Come dichiara a Repubblica.it Guy McMusker, art director e portavoce immaginario di Les Liens Invisibles, le richieste di Facebook "sono ingiustificate e nascondono la volontà di mantenere una
posizione di monopolio nel sistema dei network e, soprattutto, nella conservazione e gestione dei dati dati personali che l'uso di questo sistema consente di ottenere a chi lo gestisce. In realtà - prosegue McMusker - le informazioni che risiedono sul sito seppukoo.com ci sono state comunicate volontariamente e coscientemente dagli iscritti a Facebook che ne sono gli unici titolari e che devono poter disporre di queste come vogliono; devono dunque avere la facoltà di poterle condividere con chiunque, anche esterno a Facebook e senza le imposizioni di Facebook."

Tutto ciò però non garantisce che i dati, sebbene sia cancellato il profilo, non restino in rete, perché oramai sono già venduti alle aziende pubblicitarie e a chiunque paghi per acquisirle. Non si ha davvero il controllo di ciò che si immette nella rete. Ci poniamo quindi dinanzi ad un problema di natura etica: la legge morale coincide con la legge dello status sociale/virtuale ? In che modo poterci esprimere al meglio affinché si possa tutelare la nostra persona e al contempo evitare di restar fuori dai tempi che mutano così tanto in fretta ?
Sembra infatti che coloro i quali scelgano di far parte del mondo dei social network decidano di farlo perché sentono il bisogno di condividersi con gli altri ma anche al contempo di diminuire i contatti col mondo, in un modo o nell’altro, perché magari si sentirebbero diversamente feriti ed esclusi da esso. E’ una costatazione purtroppo evidente: ormai è difficile approcciarsi con contesti sociali nel centro urbano, ormai diventato catalizzatore delle insicurezze, dei dubbi e delle paure. La crisi odierna ha portato inoltre ancora più distanza tra le persone e ciò aumenta la diffidenza, l’ipocrisia, la necessità di costruirsi un mondo asettico in cui si possa vivere riducendo al minimo le possibilità di soffrirne a causa di esso.
E forse è proprio questo che ha lanciato facebook. Più tristi, più soli, meno certezze, meno ritrovi (le piazze, chiese, i centri culturali subiscono gli effetti di questa secolarizzazione). Perciò creiamo un account, da cui è difficile poi non caricarvi totalmente la nostra esistenza. Il tempo della solitudine degenera in un tempo virtuale: una sorta di dissociazione psicologica del Sé.

Una piccola tragedia di cui ogni atto è rappresentato da piccoli momenti, tanto apparentemente insignificanti, quanto corrosivi all’interno. Pensiamo appunto a qualche termine di rilievo per la comunicazione all’interno di questo nuovo mondo: la modalità online/offline; la chat; le emoticons; la frase “a cosa stai pensando ?” sullo status; il “mi piace”; il “condividi”; le foto del profilo; il luogo in cui ci troviamo; le informazioni del profilo.
Premettiamo innanzitutto che la vita all’interno dei social network produce numerose problematiche a livello psicopatologico. Numerose nevrosi, ansie, nonché una difficoltà nel superare i momenti di solitudine, ed un aumento dell’egoismo e dell’egocentrismo.
Tanto narcisisti quanto solitari, tanto impreparati alla velocità con cui condividiamo i nostri pensieri, le nostre emozioni, le nostre amicizie, i nostri affetti, da non considerare quanto possano essere gravi le disattenzioni che da un momento all’altro possono causarci guai. Raramente infatti vi sono coloro che considerano come “indispensabile” la lettura del contratto per la registrazione dell’account.
Sappiamo bene che l’età minima consentita per l’ingresso in questo “mondo” è di 13 anni, e che molti genitori non pongono alcun divieto ai figli di potersene “trasferire” : si crede che sia l’ennesimo gioco, un passatempo senza pericoli… ma così non è. Ciò che immettiamo nel sistema è direttamente autorizzato, proprio dal momento in cui decidiamo di accettare il contratto, che pochi leggono, ad essere messo in pubblica piazza, e ne perdiamo letteralmente il controllo. Le nostre informazioni vengono vendute sul web, ed è proprio per questo che Facebook è diventato il sesto paese più grande del mondo (con una popolazione maggiore di quella del Brasile).

E’ davvero allarmante perciò constatare che non vi può essere davvero alcun controllo di sicurezza tanto specifico da poterci salvaguardare. E i mezzi di persuasione che vengono utilizzati per far sì che il gioco continui, nonostante la consapevolezza di questi aspetti, sono studiati davvero ad arte. Proprio perché Mark Zuckerberg non essendo uno sprovveduto, ai tempi della sua invenzione, decise di frequentare un corso di psicologia, cercando quindi di implementare oltre alla sua capacità informatica, anche l’aspetto della persuasione, fondamentale per creare un mercato intorno a tale idea.

La storia di Mark Zuckerberg è inoltre, come spiega il servizio di Report, assai interessante. Il giovane, formatosi ad Harvard, ebbe la brillante idea di usare un programma di condivisione sfruttando le idee dei suoi colleghi per via di un corso d’arte. Successivamente ampliò la “sua” idea e quando fu matura decise di applicarla in modo diverso: per vendicarsi di una ragazza, la sua ex, le ruba le foto sul suo blog, la insulta e le pubblica oltre la sua foto anche quelle di altre colleghe universitarie, rubandole dagli archivi, e dopo averle raggruppate in coppie propone di votare chi fosse tra queste la più “appetibile”. Da qui il grande successo maschilista di quest’azienda.

Ma riflettiamo intanto sui meccanismi persuasivi che citavo prima: perché è lasciata così tanta importanza al “mi piace” ?
In effetti questa parola potrebbe benissimo avere un’accezione neutra, ma ciò che comporta la ripetizione a velocità della stessa procedura, implica una sottomissione al gesto meccanico. Ciò si evidenzia dal fatto che sebbene gli utenti di buon grado usino mettere il mi piace su post, video, link, articoli, musica e via dicendo, non sempre, anzi, in una percentuale decisamente inferiore, decidono di commentare, per esprimere un proprio pensiero. Perché mai ?

Forse perché il “mi piace” silenziosamente ha fatto sì che venga sviluppata, a lungo andare e ovviamente non in tutti, una ridotta capacità di riflessione e che al contempo induca una sorta di assuefazione. Non sappiamo magari perché qualcosa ci piaccia, e forse alle volte nemmeno ci piace davvero, ma decidiamo di cliccare per essere socievoli, quasi come un saluto, quasi come per simboleggiare un senso di affezione verso la tematica trattata o verso la persona che la tratta.
Un modo quindi per “dimostrare” di essere partecipi a ciò che succede nel mondo e nella vita delle persone che ci interessa seguire, ma ciò porta un inevitabile inebetimento delle capacità espressive. Si parla di messaggistica istantanea, non a caso. E la chat stessa non implica direttamente, anche se poi è a discrezione del singolo, una comunicazione con gli altri su un piano attento e riflessivo, ma riprende molto il tono del telegramma.

Le emoticons in questo servono per esprimere il proprio stato d’animo, per cercare di aggiungere alla freddezza della comunicazione, qualcosa di vivo che possa rendere meglio la finzione del dialogo, e che possa in qualche modo farci credere di avere davanti a noi al persona con cui stiamo chattando. In realtà non è così, e spesso le emoticons sono dei mezzi per dissimulare ancora di più, recando varie interpretazioni, da cui possono derivare litigi, problemi, incomprensioni, che sarebbero evitate se ci si vedesse di persona. Per non parlare anche di come ogni conversazione venga salvata per gli utenti dal server, e che possa essere usata, sebbene sia privata, per essere condivisa, senza che magari lo si sappia, con qualcun altro, arrecando ancora più problemi.
Le foto personali possono essere rubate nel giro di un millesimo di secondo e condivise anch’esse con chiunque sia motivato da non nobili intenzioni. Inoltre: ogni nostro status può essere usato in qualsiasi momento contro di noi e alle volte un commento un po’ troppo spinto, satiresco, nei confronti di un politico o di una persona qualunque, può portarci in un’aula di tribunale. E sebbene il rispetto reciproco debba esserci prima dell’iscrizione a qualsiasi social network, ed anche dopo, si dubita fortemente che dei bambini possano essere così maturi da prevederne le conseguenze (gli adulti dovrebbero essere più attenti in effetti). Quanti inoltre conoscono che bisogna chiedere l’autorizzazione delle persone per pubblicare foto in loro presenza ? C’è insomma una grande ignoranza nella maggior parte dei casi e c’è motivo per credere che ciò sia voluto dai gestori.

Inoltre, anche la richiesta di compilare il nostro profilo cela in sé numerosi problemi: è l’esaltazione dell’Ego, del narcisismo. Il profilo diventa uno specchio, in cui far sapere a migliaia e migliaia di “amici” e non di sapere esattamente il nostro profilo psicologico, conoscendoci senza averci mai visto. Adesso, se vi sono anche coloro che decidono spontaneamente di descriversi con consapevolezza, possiamo davvero pensare che sia davvero tale ? Chi mai vorrebbe, coi pericoli sopra rilevati, condividersi così ingenuamente ?
Andiamo avanti: la modalità online/offline anch’essa simboleggia dei meccanismi inconsci che meccanicamente prendono il sopravvento. Più si sta online più tempo si passa ad aspettare che qualcuno voglia chattare con noi, aumentando così la nostra dipendenza dal sistema e rendendo più raro l’evento della cancellazione o dell’accesso. Spesso molte persone rimangono connesse tutta la giornata, quasi che non riescano più a distaccarsi da esso: del resto in questo mondo c’è “tutto a portata di mano”, e senza alcuno sforzo per raggiungerlo. Una sorta di paese dei balocchi.

Inoltre la chat, vi sono studi recenti a riguardo, aumenta la nostra capacità nel focalizzare nel minor tempo possibile le informazioni utili per la fluidità della connessione, per non avvertire lo scarto con il mondo oltre il pc. Anche questo però fa sì che riduciamo la nostra attenzione, abbassiamo la guardia, e cadiamo nei tranelli sopra esposti.
E ciò si riflette anche nello studio: questa capacità nella ricerca delle parole chiave non ci è utile nel momento in cui il nostro apparato cognitivo si sviluppa solo in tal senso. Perdiamo la capacità nel concettualizzare dei pensieri, nello stare sui libri, su periodi complessi rispetto al lessico da chat, perché ormai disabituati a tale sforzo. Si fatica ancor di più quindi a scuola ed all’università. Adesso viene da chiedersi: “se la risposta è la tecnologia, qual era la domanda ?”
Sicuramente vi sono dei benefici nella comunicazione interpersonale tra utenti che, diversamente, sarebbero confinati, se impossibilitati a viaggiare, dai propri limiti territoriali. Fare rete vuol dire appunto anche conoscere diverse realtà differenti e distanti dalle nostre, da cui poter apprendere, sensibilizzarsi, costruire un proprio pensiero, o più semplicemente svagarsi.

Abbiamo l’occasione per conoscere avanguardie artistiche, condividere i nostri pensieri, le nostre ricerche, ad un numero illimitato di persone che possono aiutarci nelle nostre ambizioni professionali. Un tempo tutto ciò, pensiamo magari al ruolo dell’artista qualche decennio fa, era condizionato nella didattica, negli ascolti, nello studio e nelle possibilità di farsi conoscere, perché era praticamente molto complesso promuovere le proprie opere o conoscere ambienti che
nemmeno si potevano immaginare. In questo la rete, ed i social network, hanno quindi un meccanismo di persuasione reciproca.
Gli utenti che viaggiano in questo universo riescono a stabilire relazioni feconde e crescere sensibilmente. Non tutto quindi è negativo. Inoltre, in questa concezione che potremmo definire “anarchica”, perché appunto la libertà di muoversi, se si ha una coscienza per saperlo fare, permette grandi possibilità. In ambito di ricerca, di studio, sembra quindi ottimo il ruolo della tecnologia 2.0 .

Per non parlare inoltre dell’importanza vitale, nella critica politica, che hanno i blog di controinformazione e i web magazine online, che ci permettono di conoscere determinate situazioni in cui difficilmente ci potremmo trovare se solo prestassimo attenzione alla televisione (ormai del tutto controllata dal sistema politico, con esempi assai evidenti) e ai giornali nazionali più famosi. Creare una coscienza popolare oggi, negli anni zero, avviene perciò tramite la rete. Fare rete è il motto di oggi.
Non si può quindi restare attaccati alle vecchie concezioni riguardo la privacy perché rischieremmo un pesante anacronismo semplicemente controproducente. Invece in maniera costruttiva bisogna conoscere i limiti dei mezzi che utilizziamo ed evitare sempre di esserne soggiogati. Perché se divenissero una droga, ogni forma di positivo scambio, di interrelazione multiculturale, ogni libertà, che dovrebbero permetterci di superare i confini a volte troppo chiusi dei nostri ambienti sociali, sarebbero espressione dell’ennesimo ghetto, da cui poi non si farebbe più ritorno.
Bisogna perciò stare attenti a muoversi considerando i vari pro e contro delle nostre azioni. Ed in questo vi è appunto l’esigenza di costruire una morale personale e comune che tuteli i diritti di ognuno, anche sulla rete. Perché ?
Perché sulla rete ognuno può essere potenzialmente anonimo, e celando la sua identità, può essere, come scritto sopra, causa di spiacevoli azioni. Ad esempio sui gruppi di facebook, che appaiono come luoghi quasi sempre selvaggi, sebbene vi sia sempre una tematica in cui poter capire se ci si può inserire o meno ed in che misura, alle volte l’interpretazione personale prende il sopravvento e possono derivare litigi, discussioni, post off topic, spam, insulti, che minano al serietà del gruppo al suo interno ed al suo esterno.

Per questo in molti, come amministratori, puntiamo alla regolamentazione di norme che possano rendere inequivocabili gli atteggiamenti non consoni per l’ambiente di discussione in cui ci si trova. 

Pertanto da questa prospettiva possiamo trarre spunti per una percezione diversa degli spazi vitali all’interno della rete e della complessità dei problemi sopra esposti. Consideriamo sempre che in gioco vi è la nostra libertà di azione e di espressione. E che l’etica individuale viene sempre condizionata dalla condizione politica in cui ci si trova. Pertanto è chiaro che un Paese come il nostro dovrebbe magari adottare misure per la tutela dei diritti dei cittadini e della loro privacy, ma è chiaro che ciò non potrà avvenire fino a quando il problema non avrà una rilevanza davvero prioritaria.



Natale Anastasi