Cosa ha rappresentato
per lei la filosofia e com’è cambiata la sua vita attraverso essa?
È una domanda di fondo ed essenziale e la risposta è molto semplice. Il mio primo contatto con la filosofia – a parte quanto avevo appreso e assimilato in famiglia – è stato durante la prima lezione di prima liceo, tenuta da un professore che ricordo con grande stima e gratitudine, si chiamava Furnari. E dunque dopo quella prima lezione decisi che mi sarei iscritto in filosofia e mi sarei occupato per tutta la vita di queste tematiche. Perciò non si può dire come la filosofia abbia cambiato la mia vita, perché la filosofia è la mia vita. È vita pensata.
Cos’è la filosofia
della mente? Cosa l’ha portata ad approfondire questi temi?
Inizierei rispondendo alla seconda parte della domanda in modo da chiarire la prima. Sono partito con la tesi di laurea e poi subito dopo la laurea dallo studio della filosofia tedesca contemporanea e in particolare di Nietzsche, Heidegger, Husserl e ho approfondito la tematica antropologica in Nietzsche. A sua volta quest’ultima mi ha portato a interessarmi al rapporto dell’essere umano –la sfera che possiamo chiamare antroposfera– con le altre dimensioni dell’essere –gli altri animali (la teriosfera), la tecnologia (la tecnosfera), il sacro (la teosfera). E quindi è stato per me naturale occuparmi di intelligenza artificiale: capire meglio l’intelligenza umana confrontandola con le diverse forme di intelligenza. Così dal rapporto fra l‟intelligenza artificiale e quella naturale è scaturito immediatamente l’interesse verso l’ambito del mentale. Ma la ragione di fondo è anche un’altra, così e in questo modo cerco di chiarire anche la prima parte della domanda: la filosofia della mente non è, ai miei occhi, un ambito soltanto specialistico, anche se certamente è anche questo, ma è l’orizzonte della filosofia oggi. Perché è il modo in cui la filosofia cerca di pensare il presente e quindi l’insieme delle scienze naturali, della comunicazione, del linguaggio, delle relazioni sociali. E analizzando ciò che ci caratterizza come homo sapiens sapiens si arriva alla conclusione, per citare l’Aristotele del III libro del De Anima, che la mente è in qualche modo tutte le cose. E quindi è un ambito assolutamente interdisciplinare, per cui filosofia della mente e filosofia tout court coincidono.
Come vede in
quest’ambito la filosofia della mente e la ricerca accademica, sia in ambito
catanese, sia come realtà siciliana e come realtà italiana?
Beh, la filosofia della mente è un ambito
tradizionale in ambiente anglosassone da decenni. In Italia devo dire che negli
ultimi anni c’è una diffusione veramente molto intensa e capillare e un
ampliamento d’interesse verso tutte le tematiche legate al mentale, anche in
ambito non accademico. In ambito accademico le cattedre di filosofia della
mente si stanno moltiplicando rispetto a quando ho cominciato io qui a Catania,
dove appunto la cattedra di filosofia della mente non c’era ancora. Allora
erano quattro o cinque gli atenei dove era prevista questa disciplina, adesso
sono molti di più. Quindi dal punto di vista accademico è un settore in grande
espansione, anche per la ragione che ho indicato prima, e cioè che la filosofia
della mente consente un dialogo fra i vari saperi, non soltanto con la
filosofia ma anche con le scienze naturali, con l'informatica, con la
tecnologia. Per quanto riguarda Catania devo dire che ho trovato grande
disponibilità, prima di tutto quando sono stato invitato a tenere la cattedra e
poi dall’interesse mostrato dagli studenti nell'arco di questi nove anni
d’insegnamento.
Che dialogo può esserci tra la filosofia e la scienza “pura”?
Che dialogo può esserci tra la filosofia e la scienza “pura”?
Assolutamente profondo. Io credo che non sia possibile pensare al di fuori di un dialogo tra tutti i saperi. In particolare con le scienze cosiddette “dure”: le scienze naturali, biologia, chimica e fisica – ma senza nessun complesso d’inferiorità. Il problema dei filosofi è che quando vogliono avere un atteggiamento scientifico, di fatto rinunciano alla filosofia, cadendo in quello che si chiama riduzionismo, e cioè il complesso di inferiorità per cui è scientifico solo ciò che può essere misurabile attraverso dati quantitativi. Ma questo è un errore clamoroso. Fra i veri scienziati val la pena ricordare Antonio Damasio, un medico portoghese che lavora negli Stati Uniti, il quale ha fatto il percorso inverso e cioè da medico clinico qual è ha mostrato un grande interesse prima nei confronti del pensiero cartesiano (è un neurologo, quindi si occupa pure lui del mentale) e poi verso Spinoza, sul quale ha scritto un libro molto interessante. Perciò filosofia e scienza devono dialogare nell’autonomia degli ambiti e nella parità di valore; né la filosofia può imporre il proprio linguaggio alle scienze né la scienza può imporre il proprio linguaggio e il proprio metodo alla filosofia. La mia posizione personale è quella del libro E della Metafisica di Aristotele, ossia che se le scienze ritagliano alcuni ambiti della realtà come loro oggetto di indagine, la filosofia li comprende tutti. Lo sguardo filosofico è quindi uno sguardo verso l’intero, prospettiva che gli altri saperi -dalla critica letteraria alla matematica- non possono avere. La filosofia è al servizio di tutti i saperi con la sua peculiare forza.
Il metodo
fenomenologico può essere dunque un ponte di collegamento tra filosofia e
scienze naturali?
Sì. In particolare la neurofenomenologia di Francisco Varela, e di tanti altri, è un esempio di questa relazione, cioè un sapere che fonda i propri contenuti sulle conoscenze biologiche, in specie neurologiche, ma con uno sguardo fenomenologico. Semplificando: il brain imaging, la Tac, la Pet, la fMRI non ci dicono nulla, ci danno solo dei numeri. Noi prendiamo i dati dalle scienze dure ma è la fenomenologia a dar loro un senso universale che le scienze in quanto tali, per loro costituzione, non possono attribuire.
Quale rapporto
dovrebbe esserci tra maestro e allievo all’interno della discussione
filosofica?
Si tratta di un rapporto espresso dal termine
universitas, da questa splendida parola medioevale e cioè un rapporto di
collaborazione e di comunanza nella diversità e specificità dei ruoli, ma è
importante capire che tutti impariamo da tutti.
Quindi la fondazione
si basa su una ripresa della maieutica?
Certamente! La maieutica è il cuore stesso del
dialogo fra gli esseri umani, direi non soltanto del dialogo filosofico, ma di
quello educativo, della crescita delle persone, delle relazioni sociali. Tutti
impariamo da tutti. Questo è fondamentale per continuare ad apprendere fin
quando si campa e per creare delle relazioni feconde fra le persone.
L’università è nata così nell’Europa medioevale e così dovrebbe continuare a
rimanere.
Definizione di tempo
autentico: quale rapporto fra la quotidianità e la percezione interiore del
tempo?
In generale, io credo che non si possa parlare
di tempo autentico e tempo inautentico, ma di una costitutiva pluralità del
tempo. Uno dei limiti e degli errori della discussione filosofica (e
scientifica) sul tempo è quella di aver assolutizzato una particolare visione.
Io credo che il tempo si possa comprendere soltanto se lo si intende in maniera
plurale. Il tempo è fatto di tanti elementi diversi, e quindi è indaagbile
anche attraverso prospettive differenti; assolutizzarne una soltanto non ci fa
comprendere la ricchezza della temporalità. Al di là dell’uso specifico che
Heidegger fa di questi termini, non esiste un tempo autentico e uno non
autentico. Sono solo interpretazioni della temporalità che siamo, perché noi
non abbiamo un corpo ma siamo corporeità vivente, così non abbiamo tempo ma
siamo tempo incarnato. Si tratta semplicemente di cogliere la ricchezza e la
pluralità della nostra natura temporale.
Il tempo è quindi un
concetto innato e connesso alla spazialità oppure è appreso culturalmente?
L’uno e l’altro. Sostanzialmente è un concetto
innato. Kant ha ragione: spazio e tempo non sono frutto di esperienza ma sono
ciò che rende possibile qualsiasi tipo di esperienza. Nel corso della vita, nel
vivere, tutto questo si raffina moltissimo, comprendiamo cose che sono frutto
di esperienza e quindi di apprendimento. Il tempo non è soltanto innato, il
tempo siamo noi. Ma questo non vuol dire che il tempo si risolva in noi,
sarebbe antropocentrismo. Significa che anche noi siamo temporalità.
La coscienza interna
del tempo può escludere la coscienza metastorica dell’escatologia religiosa?
La coscienza interna del tempo, nei termini husserliani e quindi più rigorosi, non tocca queste tematiche. Io penso che la coscienza della temporalità sia sostanzialmente la consapevolezza della finitudine, la coscienza dei limiti, che ci aiuta a mantenerci nel limite e a non cadere nella hybris, nella tracotanza, nell’ignorare il fatto che siamo degli esseri mortali. Quindi il problema della morte ha sempre a che fare con il sacro.
La coscienza interna del tempo, nei termini husserliani e quindi più rigorosi, non tocca queste tematiche. Io penso che la coscienza della temporalità sia sostanzialmente la consapevolezza della finitudine, la coscienza dei limiti, che ci aiuta a mantenerci nel limite e a non cadere nella hybris, nella tracotanza, nell’ignorare il fatto che siamo degli esseri mortali. Quindi il problema della morte ha sempre a che fare con il sacro.
La filosofia può
ridare valore al mito: può riprendere la tradizione o è sempre vincolata al
dualismo cartesiano?
Che la filosofia abbia a che fare col mito non
vi è alcun dubbio. Perché il mito è mythos in senso etimologico, cioè una
narrazione del senso e dell’origine di tutte le cose. Da questo punto di vista
la filosofia è mitologica per definizione.
È possibile concepire
una nuova metafisica?
Discorso complesso. Se per “metafisica”
s’intende la domanda filosofica di fondo – perché c’è l’essere piuttosto che il
nulla – io credo che questa domanda sia il cuore stesso della filosofia. Quindi
l’oltrepassamento della metafisica che Heidegger ha proposto non è una
distruzione della metafisica ma un disvelamento profondo della domanda
sull’essere. Chiaramente in Heidegger la domanda sull'essere è una domanda
antimetafisica per via della differenza tra essere e enti: la metafisica ha
obliato tale differenza ed è ciò che il nostro filosofo vuole invece
rammemorare. In questo senso la filosofia deve andare oltre la metafisica. Ma
se per “metafisica” intendiamo invece la questione dei significati del mondo e
del perché si dà l’essere piuttosto che il nulla, credo che questa sia la
domanda fondamentale, la domanda di sempre e per sempre.
Si ringrazia il Prof. Biuso per la sua grande
disponibilità, augurandoci altre future collaborazioni.
La Redazione
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