lunedì 22 luglio 2013

Musik macht frei ? di Natale Anastasi




                                               
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"Penso che la cosa principale che un musicista vorrebbe fare sia dare all'ascoltatore un quadro delle tante cose meravigliose che conosce e sente nell'universo. Questo è ciò che la musica è per me: una delle maniere di dire che l'universo in cui viviamo, che ci è stato dato, è grande e bello".



John Coltrane






Ciò che segue è una mia personale riflessione sulla comunicazione negli ambienti artistici e didattici, partendo proprio dalla visione di questa breve intervista a Bob Marley e da questo estratto di John Coltrane.  Ho deciso di voler scrivere questo breve pensiero, con una piccola premessa d'intendimento linguistico alla base del discorso, per trasmettere qualche piccola riflessione in merito all'attività del musicista e per essere quanto più comprensibile possibile. 

Essere comprensibile appunto, essere chiaro ed essere conciso. Mi prefiggo questi tre obiettivi in questa sede. Queste "tre c" hanno per me un ruolo fondamentale per superare questa crisi odierna - dal mondo della "cultura" accademica a quella di strada - e su cui credo sarebbe opportuno aprire un dibattito, una piattaforma di discussione per evitare la dispersione e per cercare di superare insieme tutti i limiti che in parte qui espongo, sperando di favorire una lettura scorrevole e quanto più pragmatica possibile. 

Veniamo al dunque, ai perché, alle problematiche che vorrei prendere in esame. Partiamo dalla comunicazione, che come ben sappiamo è alla base di ogni rapporto. Dei buoni comunicatori riescono a trasmettere secondo me in modi appropriati al contesto ed ai contenuti le idee che hanno in mente. 

Dei pessimi comunicatori, per quanto possano o meno essersi impegnati, magari invece vorrebbero comunicarsi agli altri ma non vi riescono come vorrebbero, generando magari dei fraintendimenti o lasciando fin troppi spiragli a rappresentazioni mentali dei discorsi che potrebbero essere addirittura in antitesi fra di loro, nascosti da presupposizioni, dal credere che tutti intendano ciò che vogliamo esprimere in quanto per noi i termini in discussione paiano "ovvi", "scontati", "culturalmente evidenti", intuitivi insomma. Stiamo attenti però, le parole, i significanti hanno senso solo se noi diamo il codice specifico, chiarificando il campo di esistenza con un linguaggio quanto più possibile scevro, ma non per questo mediocre o povero, da tautologie o da espressioni che culturalmente vengono esemplificate solo dal singolo, ma che però sono presenti del gergo comune in molteplici accezioni. Ad esempio le parole "Dio", "intelligenza", "bene" e via discorrendo. Intesi in che senso?  

Già di per sé più si utilizzano termini di questo genere, più infarciamo le nostre discussioni di incomprensibilità, in cui magari gli interlocutori credono di essersi capiti, salutandosi dopo aver sostenuto una chiacchierata, o un esame universitario, credendo che siano stati capiti dall'altra persona e di aver capito esattamente nel modo in cui il nostro interlocutore intendeva spiegarci le sue idee. Bisognerebbe quindi tener d'occhio il lessico convenzionale. 

E' proprio come se adesso pensassimo di aver capito la discussione in ballo o se avessimo storto il naso per la forma arzigogolata o per l'espressione infelice "lessico convenzionale". 

Ecco, consideriamo che non ho ancora illustrato nel dettaglio cosa intendo, quindi anche qui forse sarebbe sparare prima che parta il piattello. Non ho scritto poi che sia meno convenzionale ciò che scriverò, ma almeno tenterò di dare un'interpretazione per superare qualche aporia di quelle sopracitate.  Se fosse arrogante questa proposta, in tale ragionamento non saprei cosa poi intendere con "arroganza", non so (e dico davvero) per un problema di palato, di tatto, di olfatto, di udito, di vista, degli schemi concettuali che la parola dovrebbe evocare ma che in quanto espressa per se medesima si presenterebbe ai miei occhi con lo statuto di "tautologia".  

Tutti i sei sensi (includo anche la forma del mentale) che io sono, saranno pur sempre diversi dai tuoi, cara lettrice e caro lettore. Secondo me quindi è come se ogni dato passasse da tutti questi canali percettivi e poi dopo un'equazione uscisse un risultato di cui però all'inizio si sa che deve dare un determinato risultato e alla fine a prescindere,  dobbiamo approssimarlo in base alla convenzione linguistica della comunità a cui sentiamo di appartenere. 

Come appunto se tiriamo in ballo la parola "solipsismo":  partiamo per dire dall'aver visto la definizione sul dizionario,  oppure "come i pappagalli" dall'averla sentita in un contesto e averla ripetuta credendo si approssimi bene ad una data situazione generica basata su una serie di esempi pratici in cui l'abbiamo vista in uso come forma di giudizio e in cui abbiamo cominciato ad utilizzarla, credendo fosse giusta quella data approssimazione. Le parole quindi mi sembrano in tale esempio come se fossero la chora da cui plasmare non solo la scatola cranica, ma anche lo scheletro, su cui poi cerchiamo di assimilare le sostanze che stabilizzano l'archetipo alla base (la premessa della nostra proposizione, il nostro dna concettuale), le convenzioni morali (la spina dorsale) e la forza dei giudizi nelle gambe e nei muscoli. Credo che gli studi recenti di neuroscienze forniscano esempi specifici su cui poter approfondire maggiormente, se si ha voglia.


Adesso sappiamo anche che il linguaggio non verbale è influenzato da quello verbale e viceversa. Lasciamo aperta questa parentesi senza dare risoluzioni, sono aperte le possibilità, risposte libere affinché il pensiero divergente possa creare, fantasticare su questi aspetti. 
Andiamo quindi velocemente, sperando che non ci fermi qualche carabiniere per un eccesso di velocità, e passiamo alla creazione, alla poiesi. Il nostro modo di interloquire con le nostre energie determina il nostro modo di presentarci al Mondo. Nell'arte vediamo il clou di questo laborioso processo che spesso agisce silenziosamente, con movimenti involontari, spontaneamente.  



Prestiamo dunque attenzione alle energie che comunichiamo tramite questo grande connettore sociale che è la Musica. Potremmo amplificare le energie a disposizione per far stare bene gli altri, o per farli stare male. E senza controllo rischiamo di nuocere -senza accorgercene- alla società trasferendo le proprie nevrosi al pubblico che ci ascolta. Il pubblico non è la spugna dei nostri difetti. Attenzione però, non ho pretese di indicare verità assolute, né di mandare all'inferno nessuno: sia chiaro!

Dati quindi i tempi di crisi non economica, ma umana, in cui ci troviamo, con un pò di autocritica, penso si debba tenere sempre presente la propria salute psichica, risolvere gli eventuali psicodrammi personali, e solo successivamente porsi in comunicazione con entusiasmo, con la forza di Dio dentro noi stessi donata agli altri, nel migliore dei modi. La musica è come l'arte della maieutica di Socrate: un dialogo. Input, output.


Difatti se la musica è comunicazione, dialogo allo stato puro, e non la ripetizione a memoria dei soliti pattern linguistici, chiediamoci come venga trasmessa alle nuove generazioni. Spesso è facile notare in un pessimo insegnante (ed un pessimo allievo) delle mancanze empatiche e non solo per via dei contenuti che può aver studiato in maniera non sufficiente (che non determinerebbero il suo grado d'ignoranza, ma il suo livello di presunzione).  Un pessimo insegnante, un pessimo conservatorio, una pessima scuola di musica che non tengano conto di questi fondamentali aspetti della comunicazione, rischiano quindi d'influenzare negativamente coloro che incontreranno, costruendo paradigmi o rafforzando già quelli preesistenti. Ed essere reputati degli ottimi strumentisti non implica direttamente aver a disposizione un chiaro, comprensibile e conciso metodo didattico che sia privo di manuali statali, ma che verta su una specifica direzione in base all'indole del discente. 


Non basta solo studiare musica, andare a lezione al conservatorio, per essere degli ottimi comunicatori: serve una storia, una narrazione personale non fine a se stessa, ma utile al miglioramento e all'evoluzione del Mondo. Una narrazione che sappia fare il sunto delle esigenze collettive di questo tempo, che sappia mettere dinanzi alle persone ciò che il linguaggio verbale esclude. Le nostre azioni hanno una rilevanza maggiore proprio perché agiamo tramite le frequenze, agiamo sull'inconscio collettivo e determiniamo l'ambiente sonoro dei luoghi in cui ci esibiamo. L'armonia non è sui libri!

Non serve invece uccidersi di perfezionismo, di discussioni tecniche, di giudizi estetici sulle produzioni proprie ed altrui, e nemmeno lobotomizzarsi a furia di domandarsi se si è talentuosi o meno e se si è più o meno più bravi degli altri. Spesso, per non dire quasi sempre, i giudizi espressi dai musicisti su altri musicisti sono condizionati da tutto il possibile ed inimmaginabile fuoché proprio dalla musica stessa. Invidie, chiacchiericci, gelosie, antipatie, chi più ne ha più ne metta! Sono condizionate tutte da un latente stato d'inferiorità verso gli altri, da una difficoltà empatica col pubblico e prima di tutto con se stessi. Non conoscono la propria musicalità: sono analfabeti di loro stessi. 


Se volete chiedere dei giudizi su come suonate va bene, ma chiedetelo solo a chi non vive per dare giudizi sugli altri e che non freme per avere l'occasione per esprimere un giudizio (simbolo di potere) su di voi. E' un nutrirsi del potere, perché non si sentono più le melodie, e ogni cosa pare banale e noiosa. Una canzone di tre accordi con una melodia semplicissima, per chi studia troppo, diventa una scemenza. Alienazione nella musica. 

Il metro di giudizio quindi per un musicista resta il suo pubblico, gli altri fanno chiacchiere perse. Che siano reputati dei grandi, degli ottimi musicisti, prima di tutto restano degli ascoltatori, che parlano solo per ciò che sentono loro. I maestri di vita o sono tutti o non lo è nessuno.



                                          


Dimentichiamo le finte lezioni dei finti maestri che abbiamo avuto intorno su come si debba fare musica. La superbia, la presunzione, ed il moralismo sono le malattie dei perdenti, degli eterni sconfitti. Chi giudica sempre l'operato altrui, evita di spendere energie per se stesso. Ma alla fine la qualità della propria vita ne risente. Al di là di quante maschere si possano indossare (che restano pur sempre ideali, illusorie) il volto sarà espressione dei solchi della sofferenza e dei problemi irrisolti. Al di là delle parole i nostri unici giudici saranno le nostre azioni.

Stesso discorso per chi vive continuamente nell'immedesimazione dell'altro e del suo operato. Che sia per rispetto, per ammirazione, per devozione: il risultato non cambia. Sono espressione della mancanza d'appartenenza, del Sé.

Lascio tutto volutamente in via generica, niente trattati, affinché ognuno possa fare come meglio crede l'interpretazione adeguata alla propria vita. 

Chiarificate, fate mente locale. Chiediamoci perché suoniamo: se per diletto, perché è di moda, per socializzare, perché non si sa che altro fare, perché "è un peccato mollare dopo anni di studio", ecc. O se è per una missione civica. 


Scriveva Pirandello: "a quanti uomini, presi nel gorgo d'una passione, oppure oppressi, schiacciati dalla tristezza, dalla miseria, farebbe bene pensare che c'è sopra il soffitto il cielo, e che nel cielo ci sono le stelle. Anche se l'esserci delle stelle non ispirasse a loro un conforto religioso, contemplandole, s'inabissa la nostra inferma piccolezza, sparisce nella vacuità degli spazi, e non può non sembrarci misera e vana ogni ragione di tormento".

"La semplicità è l'essenza dell'universalità": se c'è questa prerogativa, al resto pensa lei, che della musica è l'ispiratrice! E' la Musa!







sabato 13 luglio 2013

Le stagioni della vita, opera di Franco Conti Santamaria



Le stagioni della vita, di Franco Conti Santamaria. Olio su tela, (1mx1,50m)
Clicca su Play per il sottofondo musicale


“Le stagioni della vita” è l’ultima opera del pittore niscemese Franco Conti, in arte “Santamaria”. È realizzato interamente ad olio su tela (1m x 1,5m).

Spesso in una tela si dipinge una vita, si trascorre e rimembra una vita o la si ha da immaginare in un tempo futuro. Riecheggiare se stessi in un dipinto, in una scultura, in un passo musicale, questo è ciò che permette l’arte.


Il dipinto è scisso dall'autore in quattro ordini comuni ad ognuno, l’infanzia, la giovinezza, la maturità, la vecchiaia. Quattro punti cardinali in cui possiamo rimembrare le nostre esperienze, le nostre gesta: dai semplici e spensierati giochi vissuti da bambini alla potenza e all'energia che sprigiona la giovinezza, dalla maturità e compiutezza di se stessi fino alle colonne in rovina della propria esistenza.

Particolare dell'infanzia; scena che ritrae un battibecco tra fanciulli 
che giocano con un pallone. Il fiore sbocciato, simbolo della fanciullezza. 

Particolare della giovinezza; scena di un giovane che abbraccia il mondo.
I cavalli, nella Piana di Gela vista dal Belvedere di Niscemi, rappresentano
la forza e l'energia del giovane. 

Particolare della maturità; colonne erette in uno scenario metafisico
 come simbolo di compiutezza della propria vita. La scala è il passo 
verso l'ultimo stadio della vita. 

Particolare della vecchiaia; un vecchio aspetta l'oscurità totale 
come quella della Luna. Alle sua spalle le colonne distrutte, 
simbolo della morte e del finire dei giorni. La tenaglia simbolo
di lotta per la vita e la leggerezza di una piuma, che solo la morte 
riesce a recare. 




Ma ecco un volto centrale, mascherato, anonimo, espressione unanime di un osservatore che giudica le proprie gesta e il continuo chiedersi esistenziale. La maschera è un elemento costante della visione del dipinto; la si tolga e si compia se stessi nei propri costrutti; la si tolga e si veda la propria vita in questa tela. Rividi ancora una volta la delusione nei suoi occhi, nessuno è profeta nella propria patria mi disse; rimarrà solo il ricordo di una tela e di una vita, e nient’altro.



Francesco Conti.

lunedì 8 luglio 2013

Perché non ha senso iscriversi a Filosofia, di Natale Anastasi

Qui di seguito commento l'articolo di Diego Fusaro, "Perché ha senso iscriversi a Filosofia".

Mi annoiano sin troppo ormai queste classiche espressioni di autoreferenza secondo cui studiare filosofia nobiliti l'animo e renda la persona socialmente interessante a priori, perché la filosofia dovrebbe essere la 'scienza prima'. Motivo per cui ho deciso di scrivere la mia personale opinione. Del resto, queste posizioni primitive, non posso non criticarle. Nulla di personale, sia chiaro. 




Vorrei analizzare un attimo quanto scritto: 

«Scegliere un buon ateneo, con professori noti, che scrivano libri, articoli e partecipino al dibattito contemporaneo: vuol dire che il pensiero che ti insegnano è concreto, calato nella realtà. Questo aiuta poi a trovare la seconda delle condizioni favorevoli: un buon maestro».


Trovo che scegliere un buon ateneo, nel contesto italiano, sia un pò tautologico. Questo in considerazione dell'abilitazione all'insegnamento, della scrittura di articoli, libri e di partecipazione al "dibattito contemporaneo". Ciò è evidente se si segue difatti bene la crisi odierna e i risultati alquanto opinabili dell'altrettanto opinabile tfa, o della crisi nel mondo della stampa, delle incredibili prove per il patentino da giornalista. Scrivere nelle riviste, in quelle assolutamente LIBERE e DEMOCRATICHE, in cui si può scrivere senza nessuna censura e senza nessuna imposizione, non credo sia una fonte di reddito, anzi è fare la fame. 

E poi: il mercato dell'editoria per quanto riguarda la letteratura filosofica è inutile negare quanto faccia acqua da tutte le parti. Soprattutto per quanto concerne le pubblicazioni inedite e non le solite declinazioni dei soliti paradigmi della filosofia classica (scrivere di Hegel, Marx, Platone, Heidegger, Aristotele, ecc.). 

Inoltre se "la filosofia non serve", caro Diego Fusaro, il pensiero può davvero essere concreto? Mi sembra "realmente" una contraddizione in termini. Mi sembra un paradosso. "Che sia calato nella realtà", mi sembra anche questa un'espressione assai vaga, che lascerebbe intendere una sola visione da applicare come evidente alle mille strutture che, in quanto dinamiche, per definizione, non possono essere racchiuse in un'ideologia ferma e 'macrostrutturale'. Chi dice cosa sia la realtà, e chi dice che il "dibattito contemporaneo" debba essere seguito, contemporaneo per chi poi? Per il San Raffaele? 

Mi sembra che manchi il pluralismo, e che vi sia solo un tentativo di rafforzamento delle auctoritates dominanti e dell'ideologia imperalista e liberale che ha generato e continua ad alimentare questa crisi economica! Ricordiamo il baronaggio, ricordiamo Norman Zarcone per un attimo. 

Mi sembra una visione un pò troppo generalista e semplicistica. 

Ed è innegabile che non tutti possano accontentarsi di lavorare da storici della filosofia accademica. Vogliamo inoltre negare o vogliamo considerare in modo adeguato che le facoltà di filosofia si ergono ancora su un sistema scolastico primo novecentesco - di stampo fascista - e continuano a propinare una cultura in pillole a dosi di manuali e manuali? Non tutti gli studenti possono accontentarsi di avere così pochi corsi di studio, con dei programmi scelti esclusivamente dai professori, su cui non si ha quasi per nulla voce in capitolo e così chiusi alle prospettive diverse da quelle ormai territoriali. 

Che si sia rimasti indietro sia sul campo della ricerca che sul campo dello studio critico, mi sembra anche questo un dato innegabile. Siamo ancora affetti, in molti casi, e senza generalizzare, secondo me, dallo "storicismo idealista hegeliano" e tanto "varrebbe" prenderne atto. E non tutti, proprio perché la filosofia secondo alcuni apre la mente, possono ragionare secondo gli schemi di questa logica. 

“C’è chi si perde nel deserto perché con il pensiero è rimasto nel mondo, e c’è chi si salva perché, pur essendo nel mondo, è nel deserto con il pensiero”.

In Italia dovremmo prendere in esame altre realtà storiche come Eraclito, Gorgia, Wittgenstein, Nietzsche, Jung, che personalmente ritengo possano essere interessanti sia come spunti di riflessione sia per una critica INEDITA ED ATTUALE della nostra contemporaneità e che invece mi sembra vengano tramandati secondo visioni uniche; visioni ad una sola direzione più per mantenere in auge i soliti volti noti che per la divulgazione del sapere (il pensiero di x era che...). Lo stesso per la critica all'economia marxista: in quale università si studia il fenomeno del signoraggio? O siamo ancora fermi alla dialettica servo-padrone e a ciò che "realmente" si voleva comunicare nel secolo decimonono?

Vogliamo inoltre parlare delle gravissime mancanze della filosofia accademica in merito alle ricerche della fisica quantistica, della biologia, della psicologia, e del pensiero orientale?

E per non restare nel vago, posto un Manifesto che scrissi con un collega circa la situazione della nostra facoltà. Si consiglia inoltre anche questa lettura sulla situazione che vive l'Università italiana oggi. 

Aggiungerei in chiusura che non è l'indirizzo scelto a determinare il presente ed il futuro delle proprie inclinazioni ! Studiare si può benissimo da soli, si evitano le influenze esterne indesiderate e si può approfondire adeguatamente il proprio percorso.  

Sarei altamente curioso di sentire se nelle altre città le dinamiche sono diverse da quelle che critichiamo noi. E chissà cosa direbbero Don Verzè e soprattutto....Norman Zarcone a riguardo !


"Quando un uomo comune, attinge alla conoscenza, è un saggio; quando un saggio attinge alla comprensione, è un uomo comune." (Detto zen)




venerdì 5 luglio 2013

"Dimmi ciò che escludi e ti dirò chi sei", sull'Immaginazione di Natale Anastasi



"L'immaginazione è più importante della conoscenza. La conoscenza è limitata, l'immaginazione abbraccia il mondo, stimolando il progresso, facendo nascere l'evoluzione."




Albert Einstein

                                                             


Se l'immaginazione non è spontanea sembrerebbe allora più simile, se non identicamente formulabile, ad un paradigma/postulato. Se tenti di spiegare ad esempio "il nulla", o ad immaginartelo con un'ossatura specifica, scriveresti o leggeresti una poesia su di esso ?
Ed inoltre: se l'immaginazione sembra un rapporto tra pensiero divergente, paradossi, intuizione immediata e associazione libera, direi anche che vi potrebbero essere molteplici gradi di immaginazione in base alla particolarizzazione delle forme che vengono create.

Un conto è "pensare" tramite "idee", un conto è "dar senso" e “spiegazione” al fatto di "pensare tramite idee". Niente logica, non direi, perché l’immaginazione crea anche la logica: avviene però anche il contrario ? La logica, per definizione, include le escludenze. Non le esclude. Pensiamo ai tre principi della logica aristotelica! Tramite l’immaginazione semmai sembra di poter constatare un decadimento di una forma logica dominante che fa da struttura ai nostri pensieri scolarizzati e secolarizzati. Io personalmente ricordo che da bambino non pensavo alla definizione di idea, inoltre.

                                                 "Nella logica pura, la penna non deve mai staccarsi dal foglio."

Riflettere sull'immaginazione sembra come porsi la domanda del koan zen: che suono ha una sola mano che applaude ? Darvi una risposta di "senso" è la logica, l'esclusione, la pars pro toto. O pro Totò. Darvi una risposta con la prima cosa che "si pensi" è per me l'immaginazione.
Non è nemmeno casuale che Eraclito comunicasse tramite enigmi, che Platone si esprimesse tramite esempi metaforici in forma dialogica e che i "pensatori arcaici" scrivessero in versi, in forma poetica. Pensiamo a Parmenide o agli scritti orfici, eleusini (si consiglia la lettura de La sapienza greca vol. I e II, di Giorgio Colli).

Poi invece arrivò Aristotele e nacque Il Principio d'Individuazione!

"Dimmi ciò che escludi e ti dirò chi sei": che gioco... dell'assurdo!