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sabato 13 luglio 2013

Le stagioni della vita, opera di Franco Conti Santamaria



Le stagioni della vita, di Franco Conti Santamaria. Olio su tela, (1mx1,50m)
Clicca su Play per il sottofondo musicale


“Le stagioni della vita” è l’ultima opera del pittore niscemese Franco Conti, in arte “Santamaria”. È realizzato interamente ad olio su tela (1m x 1,5m).

Spesso in una tela si dipinge una vita, si trascorre e rimembra una vita o la si ha da immaginare in un tempo futuro. Riecheggiare se stessi in un dipinto, in una scultura, in un passo musicale, questo è ciò che permette l’arte.


Il dipinto è scisso dall'autore in quattro ordini comuni ad ognuno, l’infanzia, la giovinezza, la maturità, la vecchiaia. Quattro punti cardinali in cui possiamo rimembrare le nostre esperienze, le nostre gesta: dai semplici e spensierati giochi vissuti da bambini alla potenza e all'energia che sprigiona la giovinezza, dalla maturità e compiutezza di se stessi fino alle colonne in rovina della propria esistenza.

Particolare dell'infanzia; scena che ritrae un battibecco tra fanciulli 
che giocano con un pallone. Il fiore sbocciato, simbolo della fanciullezza. 

Particolare della giovinezza; scena di un giovane che abbraccia il mondo.
I cavalli, nella Piana di Gela vista dal Belvedere di Niscemi, rappresentano
la forza e l'energia del giovane. 

Particolare della maturità; colonne erette in uno scenario metafisico
 come simbolo di compiutezza della propria vita. La scala è il passo 
verso l'ultimo stadio della vita. 

Particolare della vecchiaia; un vecchio aspetta l'oscurità totale 
come quella della Luna. Alle sua spalle le colonne distrutte, 
simbolo della morte e del finire dei giorni. La tenaglia simbolo
di lotta per la vita e la leggerezza di una piuma, che solo la morte 
riesce a recare. 




Ma ecco un volto centrale, mascherato, anonimo, espressione unanime di un osservatore che giudica le proprie gesta e il continuo chiedersi esistenziale. La maschera è un elemento costante della visione del dipinto; la si tolga e si compia se stessi nei propri costrutti; la si tolga e si veda la propria vita in questa tela. Rividi ancora una volta la delusione nei suoi occhi, nessuno è profeta nella propria patria mi disse; rimarrà solo il ricordo di una tela e di una vita, e nient’altro.



Francesco Conti.

mercoledì 21 novembre 2012

LA GRANDE STORIA DEL TEMPO, di Alberto Giovanni Biuso


Stephen W. Hawking
Con Leonard Mlodinow
LA GRANDE STORIA DEL TEMPO
(A brief history of time, 2005)
Trad. di Daniele Didero
Rizzoli, Milano 2010
«BUR Scienza»
Pagine 204



Si tratta di una nuova versione, aggiornata e assai ridotta, del libro tradotto in italiano nel 1988 con il titolo Dal Big bang ai buchi neri. Un testo che ha rappresentato una sorta di canone popolare della fisica contemporanea, in particolare dei suoi contenuti cosmologici. L’Autore, infatti, così riassume il cammino dell’astrofisica del Novecento: «Abbiamo compreso l’irrilevanza del nostro stesso pianeta nella vastità dell’universo, e abbiamo scoperto come il tempo e lo spazio siano curvi e inseparabili, come l’universo si stia espandendo e abbia avuto un inizio nel tempo» (p. 102). Si tratta di scoperte o di ipotesi? Se le prime due affermazioni, infatti, sembrano certe -nei loro contesti- sulle ultime due invece il dibattito è aperto, tanto che lo stesso Hawking riconosce che una teoria scientifica «è soltanto un modello dell’universo (o di una sua parte limitata) e un insieme di regole che mettono in relazione i valori quantitativi che compaiono nel modello con le osservazioni che facciamo nella realtà. Questo modello sussiste solo nella nostra mente e non ha alcun’altra realtà (qualunque cosa si possa intendere con questo termine)» (21).
La teoria che Hawking sta cercando di elaborare nel corso dell’intera sua attività ha come obiettivo l’unificazione in un Tutto coerente delle quattro forze che intridono la materia: gravità, forza nucleare debole, forza elettromagnetica e forza nucleare forte. Nonostante il permanere dell’irriducibilità tra la prospettiva relativistica e la teoria dei quanti, l’obiettivo ultimo consisterebbe nel «trovare una teoria quantistica della gravità, un compito che finora nessuno è stato in grado di portare a termine» (148).  Il fatto è che la relatività generale ha dei limiti che vanno emergendo sempre più in tutta la loro portata, implicazioni, conseguenze e che erano chiari sin dall’inizio. Soltanto l’entusiasmo prodotto da idee tanto nuove e radicali, oltre che il rigore matematico della loro formulazione, ha nascosto tali limiti. Uno di essi è davvero clamoroso: «Quando una teoria predice delle singolarità come una densità e una curvatura infinite, è un segno che dev’essere in qualche modo riveduta. La relatività generale è una teoria incompleta, poiché non è in grado di dirci come l’universo abbia avuto inizio» (103). Ma questo non è un limite della sola ipotesi einsteiniana, è un limite della fisica in quanto tale, poiché «domande come “Chi ha predisposto le condizioni per il big bang?” non sono problemi di cui la scienza si occupa» (84). La questione non consiste  però nel trovare un nome o una qualsiasi identità a tale “chi”, il problema è un vuoto epistemologico, è l’assenza di una spiegazione completa, è la stessa singolarità come ambito nel quale le leggi elaborate dalla fisica non hanno più valore. Ma il limite più grave è ancora un altro. Se, infatti, le scienze fisiche ammettessero questo loro confine esplicativo e si ritenessero -quali sono- un linguaggio tra gli altri con i quali cercare di comprendere il mondo, ne seguirebbe la totale legittimità e valore dei loro assunti nello specifico ambito del loro linguaggio. E invece la fisica contemporanea ritiene spesso -non sempre, per fortuna- di essere l’unico linguaggio legittimato, autorevole, rigoroso. Tale atteggiamento si nota anche in Hawking, che nella pagina conclusiva del saggio deplora la filosofia e i filosofi in quanto i secondi «non sono riusciti a tenere il passo con il progresso delle teorie scientifiche» e la prima perché si sarebbe ridotta a una semplice analisi del linguaggio: «Che declino rispetto alla grande tradizione della filosofia da Aristotele a Kant!» (172).
Ma guardiamo un poco più a fondo dentro le teorie cosmologiche sostenute da Hawking e da molti suoi colleghi.
L’unificazione dello spazio e del tempo a partire dalle proprietà della luce è certamente un grande risultato ma non può ergersi a unica spiegazione della temporalità, la cui identità molteplice è fatta anche di memoria,  attesa, socialità, storia, biologia e non soltanto di movimenti di particelle. La soluzione al paradosso dei gemelli consiste nel superamento dell’idea di un tempo assoluto poiché «ogni singolo individuo ha una propria personale misura del tempo, che dipende da dove si trova e da come si sta muovendo» (60) ma, ancora, la propria personale misura del tempo non dipende soltanto dal luogo e dalla velocità del moto bensì anche dall’essere e dal sapersi parte di un flusso temporale che si origina nei gangli stessi della corporeità vivente, del Leib.
La congettura della protezione cronologica proposta da Hawking per evitare le gravi contraddizioni che ineriscono ai viaggi nel tempo -resi possibili dalla relatività- «afferma che le leggi della fisica concorrono per impedire che i corpi macroscopici portino informazioni nel passato. Questa congettura non è stata dimostrata ma ci sono delle ragioni per credere che sia vera» (141). Di congetture come queste non potremmo riempire il mondo e i libri allo scopo di superare ostacoli per ora insuperabili e incongruenze per ora irrisolvibili?
La teoria delle stringhe interpreta la forza gravitazionale esercitata dal Sole sulla Terra «come causata dall’emissione delle particelle portatrici di forza dette gravitoni» (153). Sono questo linguaggio e questa sostanza così diversi dalla vis dormitiva attribuita da un medico all’oppio e giustamente messa alla berlina da  Molière?
Prima di compatire la filosofia e porsi come suo superamento, i fisici -teorici o sperimentali che siano- farebbero bene a conoscerla meglio.


                                                                                             Alberto Giovanni Biuso

Roberto Ciotti – King of Nothing


Roberto Ciotti – King of Nothing

Album: King of Nothing
Artista: Roberto Ciotti
Genere: Blues, Electric Blues, Soul
Etichetta Discografica: Gala Records (Italia)
Paese: Italia
Data pubblicazione: 1994

Roberto Ciotti è un chitarrista italiano, nasce a Roma nel 1953 e già adolescente si dedica allo studio della chitarra e al blues. Durante la sua carriera ha collaborato con artisti di fama nazionale, come il cantautore napoletano Edoardo Bennato e il sassofonista Maurizio Giammarco, con il quale formò nel 1973, insieme a Sandro Ponzoni al basso, Alfredo Minotti alla batteria e Alvise Sacchi alle percussioni, il gruppo di rock progressivo dei “Blue Morning”, collaborando con artisti di rilevante notorietà come Antonello Venditti e Francesco De Gregori. Dopo la breve esperienza con il gruppo, Ciotti continua a fare musica e prosegue la sua strada in discesa verso il blues, continuando a produrre e a registrare album come solista dal 1978.
Nel 1994 Roberto Ciotti produce l'album “King of Nothing”, grazie alla preziosa collaborazione dell'etichetta discografica della Gala Records. L'album contiene ben undici tracce,  e venne presentato ufficialmente al pubblico durante il programma “Roxy Bar” su Videomusic nel febbraio del 1995 e, due mesi dopo, in due puntate di “Tribù” su TeleMontecarlo. L'album, come quelli precedenti, contiene buona musica e blues fatto con maturità e passione, un blues in grado di coinvolgere e di mescolarsi con altri generi come il soul e il jazz. La prima traccia è intitolata “Low Down”, un brano in cui la prima cosa che si nota è la  raffinatezza e la maestria di Roberto Ciotti negli arpeggi e negli assoli con la chitarra. Un aggettivo? Travolgente. La seconda traccia è “King of Nothing”, brano già utilizzato come colonna sonora del film di Lucio Lunerti “Il tempo del ritorno”; si tratta di un brano accattivante dove gli assoli di sax si fanno ben sentire. La terza traccia, “Ordinary Man Blues”, è un brano che trasmette lo stato d'animo del bluesman: sfiducia, l'esser dubbiosi, diffidenza nei confronti di una realtà che non lo convince.  All'interno dell'album troviamo anche una buona cover di uno dei brani più belli di Jimi Hendrix: “Hey Joe”.
Si tratta di un disco pieno di semplicità creativa, di musica semplice e allo stesso tempo coinvolgente, e l'ascoltatore non può non esser entusiasta nell'ascoltare anche gli altri brani (da “Travelin' Man” a “Unlucky Love”, da “Crossroads” a Sexy Mama”, da “The Game”, “One Way Boogie” fino a “Love In Vain”), che lo trasporteranno in un vortice di energia positiva, grazie alla maturità artistica e creativa del chitarrista di Roma. Nonostante la figura di Roberto Ciotti è un po' oscurata a causa della fama internazionale di alcune personalità importanti dello palcoscenico musicale italiano, come Andrea Bocelli, Zucchero, Luciano Pavarotti, Mina, Adriano Celentano e tanti altri ancora, e non avendo gli stessi appoggi che hanno avuto tali artisti, lo si può lo stesso definire un grandissimo artista, nonché uno strepitoso chitarrista. Non lo sottovalutiamo.

Giustino Iezzi

martedì 20 novembre 2012

Isaac Asimov, Il libro di fisica ( Bestsellers Oscar Mondadori, 2011)



Ultimamente, a seguito delle nuove scoperte riguardanti il neutrino, la comunità scientifica è in grande agitazione. Tra il pubblico, specialista e non, si fa un gran parlare di particelle, di acceleratori, di tunnel, di velocità della luce, insomma di “scoperte del neutrino” tanto generiche quanto errate. Ma vi siete mai chiesti cos’è un neutrino, o più genericamente cos’è una particella?Oppure cos’è un acceleratore di particelle? O ancora, perchè la velocità della luce sembra essere tanto importante?
Sono queste tutte domande all’ordine del giorno, e non solo in virtù delle ultime scoperte, ma soprattutto per il mondo in cui viviamo, in cui la scienza sembra avere assunto ormai una posizione di rilievo ed autorità innegabili; fortunatamente però tali domande hanno delle risposte accessibili anche per il “profano”, che le potrà agevolmente reperire attraverso la lettura de Il libro di Fisica di Isaac Asimov, edito per i tipi della Mondadori ed entrato più recentemente anche tra i bestsellers.
Certamente, l’Autore in questione è noto nel nostro paese sopratutto per i suoi racconti di fantascienza e specialmente di robotica, i quali, oltre a registrare una grande tiratura, sono stati a volte anche oggetto di produzioni cinematografiche ( è questo il caso, ad es. di Io, Robot o de L’uomo bicentenario). Eppure, specialmente Oltreoceano, ma anche in Italia, il celebre scienziato-romanziere di origine russa è anche ben noto per la sua saggistica scientifica di stampo divulgativo. Ed è appunto a questo “genere” che appartiene il libro qui recensito, uscito nel 1984 col titolo originale di Asimov’s new guide to Science, ultimo capitolo della fortunata serie Guide to Science inaugurata da Asimov più di venti anni prima, ed edito in Italia in due volumi separati, tradotti impropriamente con i titoli diManuale di Biologia Manuale di Fisica, e, seppur sommariamente, di quest’ultimo ci occuperemo in questa sede.
Il saggio si compone di dieci corposi capitoli, nei quali Asimov, con una prosa sempre densa e scorrevole, nonché chiara ed essenziale ( sebbene tale “essenzialità” gli sia valsa a volte come una critica, specie nei romanzi) si “diletta” ad illustrare al lettore i principali temi, problematiche e teorie delle scienze attuali (dove naturalmente per “attuale” si deve intendere qui fino al 1984), partendo dai settori che si occupano del macrocosmo – l’universo, il sistema solare, le galassie, la Terra, etc. -, passando poi per le scienze del microcosmo con le loro relative problematiche (ad es. la chimica e gli elementi, la fisica e il “mistero” dell’atomo, le onde e la natura della luce) e per arrivare infine alla trattazione dei dispositivi artificiali che di tali forze e fenomeni si avvalgono, ossia le macchine e i reattori.
Una piccola menzione a parte merita poi il primo capitolo, Che cos’è la scienza?, il quale ci mostra un Asimov che esce per un attimo dai panni dello scienziato “puro” – se mai egli scienziato puro è stato – per entrare nel campo dell’epistemologia e porsi la complessa questione dell’origine della scienza, la quale troverebbe risposta in una prospettiva bio-antropologica. Infatti, secondo il Nostro, la scienza riceverebbe il suo primo impulso dalla curiosità, la quale a sua volta procederebbe di pari passo con la sempre maggiore complessità ed evoluzione del mondo organico, dimodochè Asimov può affermare che “più il cervello è progredito, maggiore è l’impulso a esplorare, maggiore il ‘sovrappiù di curiosità’ ”. Questa dunque, a grandi linee, l’“ipotesi” epistemologica di fondo, che viene tra l’altro sviluppata apprezzabilmente dall’autore in senso storico-genealogico, narrando in  qual modo si è pervenuti, dall’originario “desiderio di sapere” (philo-sophia) dei Greci allo sperimentalismo del XVII Secolo, per arrivare poi al grande edificio della fisica classica di Newton e infine a quella che è la scienza odierna.
Peraltro, a maggior beneficio del lettore, tale “metodo” storico-genealogico, se così si può chiamare, viene applicato diffusamente attraverso i vari capitoli del libro: così, ad es., trattando di universo e sistema solare, Asimov prende le mosse dalla scienza antica (le prime misurazioni, il sistema aristotelico-tolemaico) per poi arrivare, passo passo, al sistema copernicano, e poi ancora alle teorie e ai problemi più recenti, come la nascita dell’universo o i buchi neri.
Naturalmente, però, la storia non esaurisce affatto quest’opera, della quale il dilettante apprezzerà sopratutto la grande ricchezza delle tematiche riportate ed esplicitate, al punto da poter ben dire che qui non esistono un singolo fenomeno, esperimento o teoria degni di nota che non vengano trattati, e per convincersene basti sfogliare l’indice analitico degli argomenti, che conta quasi 2000 voci (!): ed infatti la penna di Asimov, attraverso i meandri della storia e dei grandi scienziati che l’hanno segnata, si inoltra puntualmente nell’analisi e nella spiegazione dei principali fatti scientifici, dai più banali quali la caduta di una pietra o l’elettricità statica, fino ad arrivare più avanti alle teorie più complesse ed “incomprensibili”, com’è il caso della fisica quantistica o della famigerata relatività einsteiniana, il tutto con uno stile che – come già accennato – se non eccelle in letterarietà, brilla per chiarezza e concisione, oltre che per la grande facilità di lettura che ispira.
Ed ancora, ultimo ma non meno importante, si apprezza anche la presenza per così dire “attiva” dell’Autore, il quale più volte, affrontando tematiche dai risvolti spinosi, quali l’energia nucleare, il surriscaldamento globale o la cosiddetta “morte dell’universo”, solo per citarne alcune, non si “nasconde” affatto tra le pagine del libro ( come il luogo comune dello scienziato potrebbe suggerire ad alcuni), ma si mette anzi in prima linea nel discutere risvolti pratici, rischi e vantaggi dell’attività scientifica, condannando fermamente, come nel caso della bomba atomica, qualsiasi utilizzo pratico della scienza che vada contro il bene comune dell’umanità.
In breve un libro, questo, consigliato ad un pubblico vasto ed eterogeneo: tanto all’esperto di scienza, o allo scienziato di professione, che sicuramente ne apprezzerà l’elemento narrativo, che lo rende una vera e propria sintesi, seppur succinta, di due millenni e più di scienza, quanto al dilettante, che da questa lettura potrà guadagnare una buona conoscenza, seppur intuitiva, dei principali problemi e prospettive delle scienze contemporanee e non solo, in maniera scevra da luoghi comuni e sopratutto esaustiva e di facile comprensione.
Giuseppe Raudino

Warren Haynes – Man In Motion


Album: Man In Motion
Artista: Warren Haynes
Genere: Blues, Electric Blues, Soul
Etichette Discografiche: STAX/ Concord Music Group, Beverly Hills (California) -Top Hat Recording, Austin (Texas)
Paese: Stati Uniti (USA)
Data pubblicazione: 2011

Prima di parlare di “Man in Motion”, l’ultimo album fatto da Warren Haynes, dobbiamo prima parlare di Warren Haynes.
Warren Haynes è un chitarrista blues, noto soprattutto in terra statunitense per esser stato per molto tempo membro della famosa southern rock band di Jacksonville in Florida, ovvero la Allman Brothers Band, nonché membro e fondatore dal 1994 del gruppo blues rock Gov’t Mule ( abbreviazione di Government Mule). Nato il 6 di Aprile del 1960, il nostro caro Warren nasce e cresce musicalmente in un epoca dove c’era l’imbarazzo della scelta: era il periodo d’oro di Jimmy Hendrix, di Eric Clapton e dei Cream, di B.B. King, di Johnny Winter, di Freddie King, Albert King, tutti grandi esponenti del blues. Dopo “Tales of Ordinary Madness” del 1993, Warren torna alla carica con il suo ultimo album “Man in Motion”.

C’è da dire che dal punto di vista tecnico, “Man in Motion” si presenta come un disco assai ricco di virtuosismo, ovvero si tratta di un album che trasmette la spontaneità creativa di Warren, grazie alla sua incredibile dimistichezza nel suonare la chitarra, e di conseguenza ti trasmette un immensa gioia nell’ascoltarlo, perchè da bravo bluesman quale è il nostro Warren Haynes ha il compito di contagiare la sua passione, nonostante il blues si basa praticamente su tre accordi. Egli è impeccabile anche nella scelta dello strumento: le Gibson Vintage ES 335 e ES 345 sono le chitarre che utilizza Warren, con tanto di cassa “semi hollowbody”, per ricreare un sound chiaro, pulito, tipico del blues fatto con genuità. E’ un album che contiene dieci tracce, e si tratta di un album dove troviamo moltissimo blues, su questo non ci sono dubbi, però c’è da notare anche una mescolanza con alcune sonorità tipiche della musica jazz e soul, che si fa sentire grazie all’immensa collaborazione di un grande tenorsassofonista che è Ron Holloway, cresciuto musicalmente con Sonny Rollins, una leggenda tra i tenorsassofonisti del jazz. Tali mescolanze le possiamo notare benissimo nella quarta traccia “Sick of my shadow”, dove oltre al sax si fanno sentire le tastiere gospel, nella quinta traccia “Your wildest dreams”, dove il sax si fa ben sentire grazie ad un eccezionale assolo di Holloway, nell’ottava traccia “A friend to you”,  con un suono stavolta più stuzzicante e coinvolgente, e nella nona traccia “Take a bullet”. Parlando della prima traccia, da cui prende il nome l’album, comincia con un bellissimo intro di chitarra, che quasi ti trasmette quella voglia di viaggiare, di rendere la tua vita un’avventura, quindi abbattere la quotidianità e le cose scontate; quasi quasi la vedrei benissimo come una hit estiva, ovviamente rivolta agli appassionati del genere. Invece, se volete ascoltare un po’ di tutto, dal blues al jazz, dal soul al gospel, vi consiglio vivamente di ascoltarvi la seconda traccia intolata “River’s gonna rise”, un bel mix trascinante ispirato ai generi citati precedentemente. La traccia dove il genere gospel si fa sentire maggiormente è “Save me”, ovvero l’ultima dell’album, dove organo e piano sono gli strumenti protagonisti.

La settima traccia “Hattiesburg Hustle” ricorda molto le sonorità tipiche e già adottate dal suo gruppo, ovvero i Gov’t Mule, anche se in forma minore. Le uniche due traccie in cui c’è poco da dire sono la terza, che è una cover di una ballata di William Bell “Everyday will be like a holiday”, e la sesta “On a real lonley night”, un brano con un up-tempo leggero e un po’ banale.
In sostanza, “Man in Motion” è un album contenete un morbido rollio di blues, soul e jazz che scorre con continuità dall’inizio alla fine, senza correre il pericolo di annoiare l’ascoltatore. E’ un album che ti cattura e ti trascina con i travolgenti assoli di Warren, che lasciano comunque spazio e notorietà agli altri componenti che hanno contribuito alla realizzazione di tale album, perchè “Man in Motion” trasmette musica fatta con il cuore. Bisogna esser rilassati, sereni e pieni di vita quando lo si ascolta, dalla prima alla decima traccia. Il giudizio finale non può che essere positivo in tutti i sensi, un ottimo lavoro fatto dal leader dei Gov’t Mule.
Giustino Iezzi

L’Attimo Fuggente


“Andai nei boschi perché desideravo vivere con saggezza, per affrontare solo i fatti essenziali della vita, e per vedere se non fossi capace di imparare quanto essa aveva da insegnarmi, e per non scoprire, in punto di morte, che non ero vissuto. Non volevo vivere quella che non era una vita, a meno che non fosse assolutamente necessario. Volevo vivere profondamente, e succhiare tutto il midollo di essa.” (Henry David Thoreau).

L’adolescenza, la giovinezza. L’intermezzo sempiterno fra la fanciullezza e la maturità. Senz’ombra di dubbio rimane questo il periodo della vita in cui la forma mentis di un essere umano trova il suo percorso, si fortifica, plasma il giovane mutandolo in quello che diverrà in età adulta. Un riflesso dell’età in cui per la prima volta si tenta un approccio con le problematiche reali del mondo che ci circonda. Attorno a questo nugolo focale di questioni si svolge la vicenda raccontata nel film L’attimo Fuggente (Dead Poets Society, 1989) del regista australiano Peter Weir. Lo sfondo è quello di un collegio giovanile di formazione ultraconservatrice, teso a infondere nei giovani i valori meccanici di una cultura del rigore, della disciplina e dell’obbedienza. Trigonometria, fisica, latino ed economia sono il pasto quotidiano per forgiare intelligenze che popoleranno la società del domani. Banchieri, avvocati, medici. Al servizio della società per diffondere una vita omologata, fatta di caste chiuse asservite ad un corpo sociale bigotto e ipocrita. Poiché “a diciassette anni i giovani non devono assolutamente sviluppare un pensiero critico o imparare a ragionare con la propria testa”. La direzione impone, il vassallaggio approva. Ma in tutti le “prigioni intellettuali” può avvenire un punto di rottura. Ed in tal caso è il professore di letteratura Keating, interpretato da un magistrale Robin Williams, a scatenare il dissenso, la frattura fra istituzione e allievo.
La poesia, la letteratura diventa tutt’a un tratto un’arma contro la chiusura mentale. Ed è emblematico quanto una cosa potenzialmente innocente come leggere poesie in una grotta diventi invece l’innesco per la più fragorosa delle detonazioni. La Setta dei Poeti Estinti rappresenta il Cavallo di Troia di Omerica memoria pronto a scardinare i farraginosi ma implacabili ingranaggi del “sapere costituito”. In fondo AndersonDalton,Perry o Overstreet sono il prototipo della maggioranza di tutti i ragazzi del mondo, ne rappresentano una traccia. Sogni, lotte e idee vivono in loro e nel loro entusiasmo come in buona parte dei ragazzi della loro età. Anche noi abbiamo fatto parte di questo mondo. Il problema sorge, quando la libertà di pensiero sboccia nel posto sbagliato al momento sbagliato. Non vi è nulla di più pericoloso e di più destabilizzante di quello di una florida e candida capacità di riflettere. La sentenza più immediata è la soffocazione violenta dell’opposizione, mediante punizioni corporali che feriscono il corpo e allo stesso tempo violentano l’anima. Il tutto riflette il caos cosmico di una visione del mondo unilaterale e comoda, che avvista nella conservazione dell’arcaicismo l’unica risposta alla volontà di nuovo, di un senso di modernità spirituale che cozza decisamente con l’ordine a priori stabilito. Non vi è migliore catalizzatore per smuovere le acque della poesia e della letteratura, in questo infido abominio. Walt WhitmanHenry David Thoreau e William Shakespeare sono uomini di un’altra epoca, che affacciandosi con un occhio introspettivo e retroattivo sulla nostra epoca, c’invitano a cogliere l’attimo, a porre un legittimo atto di forza nel Carpe Diem. Fino allo strumento del teatro, indicatore dell’illusione idillica che combatte una realtà incongrua e parossistica, che volteggia scoprendo violentemente il velo di Maya di una tangibilità dell’essere totalmente rovesciata. Non c’è strumento indagatore migliore del Sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare a mostrare agli occhi dello spettatore la crudezza della realtà. In un attimo la commedia sul palco muta in tragedia al di là della scena, nella vita reale. “Se noi ombre vi siamo dispiaciuti, immaginate come se veduti ci aveste in sogno, e come una visione di fantasia la nostra apparizione” dice Puck/Neil Perry alla fine della farsa. Il sogno ha fine, e ha inizio il più burrascoso dei risvegli, il ridestarsi da un benevolo torpore, da un godurioso coma.
Il cerchio si chiude con la colonna sonora di questo capolavoro di fine anni ’80. Le melanconiche musiche diMaurice Jarre mettono a fuoco il corollario perfetto di un intreccio polifonico, dove le voci giovanili dei ragazzi assecondano le aspirazioni di futuri uomini che, a costo della sconfitta, ripudiano finalmente le vessazioni subite. Per concludere, possiamo solo aggiungere che questo memorabile capolavoro del cinema c’invita a riflettere, anche se non avesse ricevuto la sequela numerosa di premi che ha decisamente meritato, fra i quali un Premio Oscar per la migliore sceneggiatura originale di Tom Schulman, un Nastro d’Argento e un David di Donatello. Il nostro sguardo da semplice essere umano, che vive brevemente e che un giorno “smetterà di respirare, diventerà freddo e morirà” non sia mai disinteressato, spento, acritico o pedissequamente acquiescente. Tutti noi siamo capaci di urlare il nostro Yawp!  e di onorare quell’esortazione a cogliere l’attimo da parte del “Capitano” Keating. Non raccogliere questo guanto di sfida, crollando violentemente al suolo sotto i colpi delle idiosincrasie dell’esistenza quotidiana, sarebbe l’equivalente di unHarakiri.
Simone Bellitto

No-Sweat



Artista: No Sweat
Album: No Sweat
Data pubblicazione: 1990
Genere: Hard Rock, Melodic Rock, AOR
Etichette Discografiche: Pogologo Productions Group, Seattle (Washington) – Goodnight L.A. Studio, Van Nuys (California).
Paese: Irlanda (IRL), Stati Uniti (Usa)

Siamo tra la fine degli anni 80′ e gli inizi degli anni 90′, precisamente nel biennio 89-90, un periodo non molto felice per la musica AOR, sia per coloro che la producevano sia per gli ascoltatori che nonostante la politica dell’industria musicale erano numerosissimi, trascurata e messa da parte per far spazio ad un genere che in tutta franchezza possiamo considerarla come la nemesi di tutto ciò che il rock anni 80′ ha significato, ovvero il “grunge”. Nel frattempo, alcune band notoriamente conosciute in passato per certi generi (hard rock, hair metal, AOR…) come i Warrant, i L.A. Guns, i Motley Crue e i Poison, pur di mantenere la loro fama e di lavorare presso le etichette più importanti, hanno dovuto fare “patti con il diavolo” e accettare determinate condizioni aggiungendo alcune sonorità affini al grunge nelle loro canzoni; altre invece hanno preferito continuare per la loro strada lavorando presso etichette minori, e i No Sweat è stata una di queste.
I No Sweat era una band rock irlandese, attiva proprio durante il biennio 89-90. La band era composta da Paul Quinn (voce solista), PJ Smith (tastierista e corista), Jim Philips (chitarrista ritmico e corista), John J. Angel (bassista), Dave Gooding (corista e chitarrista solista, famoso per esser stato insieme a Bruce Dickinson leader del gruppo blues rock B.L.O.W.) e Ray Lean (batterista). Sono diventati famosi, soprattutto in terra natia, con il loro singolo “Heart and Soul”, un brano composto in collaborazione con niente poco di meno che Joe Elliott, frontman della famosa rock band di Sheffield: i Def Leppard. Questo singolo ottene un tale successo che raggiunse la cima delle classifiche irlandesi per due settimane consecutive nel giugno del 1989, e come dare torto?! Tra il testo e gli incredibili assoli di chitarra, darebbe a chiunque un incredibile scarica di adrenalina. Sempre nello stesso anno, i No Sweat ritornano alla ribalta con i singoli “On the edge” e “Tear down the walls”. “On the edge” è la classica canzone che trasmette passione, sentimento e nostalgia, invece per “Tears down the walls” non c’è molto da dire, se non un intro direi abbastanza mediocre come per il resto della composizione della canzone stessa. Nel 1990 i No Sweat annunciano la pubblicazione del loro primo,unico ed omonimo album, inserendo oltre ai tre precedenti singoli altri sette brani, quindi dieci tracce in totale. L’obbiettivo primario della band era quello di affermarsi nel mercato inglese e in particolare quello statunitense. Essendo la prima traccia “Heart and Soul”, già citata e descritta in precedenza, la seconda traccia è “Shake”; sicuramente non è tecnicamente superba, però è una canzone trasparente, che ci comunica, come già ce lo anticipa il titolo, un messaggio diretto: Scatenati! Lasciati guidare dal sound!
Sicuramente la terza traccia “Stay” è quella che particolarmente non entusiasmerà l’ascoltatore, perchè si tratta in effetti di una delle tante ballad sentite e risentite tipiche del Melodic Rock anni 80′. Proseguendo troviamo tracce che più o meno sono un rimpasto di brani precedenti, come “Generation” o “Lean on me” che sono tecnicamente delle riedizioni di “Shake”. I brani che concludono il loro omonimo album sono “Stranger” e “Mover”, quest’ultima con intro di chitarra  che trasmette un sound tipico del southern rock.
Nonostante il successo ottenuto inizialmente, questa band irlandese ha avuto la sfortuna di affermarsi musicalmente in un periodo in cui le major stavano ormai passando lo scettro della popolarità radiofonica alle band che suonavano musica grunge, un evento che sicuramente ha cambiato molte cose sia dal punto di vista tecnico, sia dal punto di vista estetico e soprattutto dal punto di vista comunicativo, perchè il grunge diffonde una filosofia completamente opposta a quella dei vari generi che hanno influenzato il rock anni 80′. Il grunge era sinonimo di sofferenza, rabbia e depressione, invece il rock anni 80′ (hard, glam o hair metal, AOR…) era sinonimo di divertimento, amore, donne, voglia di vivere. I No Sweat hanno divulgato quella voglia di vivere e quel divertimento troppo tardi e hanno tentato nonostante tutto di continuare per questa strada, rinunciando anche qualche appoggio importante e qualche compromesso che gli avrebbe sicuramente portati verso un altra strada. Quindi una fugace fama e una vasta serie di circostanze hanno determinato lo scioglimento dell’intero progetto, ma non per questo li dobbiamo mettere nel dimenticatoio senza che nessuno possa avere la possibilità di ascoltare i loro gradevoli pezzi.
 Giustino Iezzi

Il Favoloso Mondo di Amélie



Si potrebbe stare ore a commentare le dinamiche psicologiche presenti in questo film. Non posso non notare come tutte le dinamiche esistenziali di Amélie derivino da un conflitto edipico non risolto con i genitori, in particolar modo con il padre. Quest’ultimo, un genitore assolutamente metallico, non le dona affetto, evitando ogni tipo di contatto fisico. I suoi atteggiamenti ossessivi, come stare attento che il costume da bagno non si attacchi in maniera aderente al corpo, oppure, l’impossibilità da parte sua di stare accanto ad un’altra persona nei bagni pubblici, pur essendo dello stesso sesso, mostrano sicuramente molti blocchi emozionali legati all’intimità e alla capacità di entrare a contatto con le emozioni. Il contatto fisico che dovrebbe avere con gli altri e con sua figlia in particolare, non potendo essere espresso liberamente, viene portato alla coscienza dal padre di Amélie, sotto forma di malattia da curare. A mio avviso, non a caso sceglie di esercitare la professione medica.
E’ il suo unico modo di vivere, di portare nella realtà, seppur in maniera distorta e mascherata, l’impulso bloccato di contatto fisico e affetto. Ecco che la condizione di vita di un personaggio, viene vista da quest’ultimo, come una scelta, in questo caso professionale, piuttosto che come costrizione legata a traumi infantili. Il coma della vicina, per esempio, diventa per Amelie una scelta, non una costrizione. Lei immagina che la signora abbia scelto di dormire tanto per poi stare sveglia tutte le notti. Ma in maniera celata e rielaborata, la condizione di stasi, di morte della signora rispecchia fedelmente la condizione di Amélie che lei stessa non accetta e maschera come scelta di vita, modo di essere, originalità e unicità. Stessa sorte tocca al pesciolino rosso. Anch’egli diventa metafora della vita psichica di Amélie.
Di fatto, diventa interprete del suo inconscio, soddisfando una pulsione che lei non ha il coraggio di soddisfare, ovvero il tentativo di suicidio. Ed è di quest’ultimo che la madre ha un arcaico terrore, e sempre a causa di quest’ultimo, non a caso, che perderà la vita. Ma la vita, quella di Amélie va avanti così. La dinamica non risolta con il padre, la porterà ad avere numerosi scontri nel suo percorso. Il primo di questi è un signore che la convince del fatto che la sua macchina fotografica provochi incidenti. Ancora una volta in lui, Amélie proietta quell’ atteggiamento castrante, quell’impossibilità di espressione, di godere della vita, che ha sempre subito da parte del padre e, pertanto, decide di vendicarsi sabotando l’antenna del vicino. Il padre e la madre sono, infatti, soggetti psicotici che sembrano influenzare negativamente l’esistenza della protagonista fin dalla tenera età.
L’autore si diverte a descrivere i personaggi attraverso l’elenco delle cose che piacciono o non piacciono a loro. Lei scappa dalle emozioni forti, non essendo stata allenata dai genitori a riceverle da piccola. Infatti, ad Amélie piace, come dice la voce fuori campo, andare al cinema. Ma mentre tutti guardano i due innamorati travolti da un bacio passionale, lei preferisce evitare di entrare in contatto con se stessa, con il suo problema, posando il suo sguardo su un particolare insignificante, la mosca sullo schermo, oppure, guardando i volti delle persone presenti.
Le espressioni del pubblico le permettono di sentire le emozioni della scena non in maniera diretta, ma attraverso un filtro. Tra le cose che non le piacciono ci sono i film americani in cui il guidatore non guarda mai la strada. Inconsciamente lei non accetta questa parte di se, che la porta ad essere fuori dalla realtà, a non “guardarla negli occhi” e che il suo inconscio proietta nel guidatore disattento.
E diventa così, metafora di un mondo che si aggrappa a soggettive certezze, a quotidiane abitudini, a miti fasulli o a illusioni. Come la fantasticheria sul signore delle fototessere. Per lei è “un fantasma che cerca di non farsi dimenticare dal mondo sensibile, lasciando le sue tracce impresse sulla carta fotografica”. In realtà, con queste parole lei descrive se stessa. Il signore è semplicemente un tecnico, pertanto l’intera vicenda è soltanto una proiezione della sua condizione, del suo disagio e del suo dolore. Disagio questo, che giustificherà, mascherandolo in un compito supremo, assegnatogli quasi come se fosse una martire. Infatti, la morte di Lady D evoca in lei l’Immagine del suo funerale pieno di gente, simboleggiando inconsciamente il desiderio di essere riconosciuta, di non essere un “fantasma”, di esistere, sforzandosi di trovare un senso al suo dolore. Ma in merito, avrà un aiuto, un aiuto formidabile, da una persona che in realtà rappresenta simbolicamente il possibile futuro di Amélie, quello che sarebbe destinata a diventare. L’uomo di vetro, dal nome decisamente simbolico, le fa capire che lei è ancora in tempo per cambiare il suo destino, il proprio copione disfunzionale.
E’ ancora in tempo, per pensare a se stessa, per non trasformare il suo corpo nella rappresentazione fisica della sua psiche: fragile, incapace di affrontare il mondo, di scontrarsi con esso e di crescere. L’uomo di vetro, pur essendo un vecchio, paradossalmente, è rimasto sempre bambino. La sua casa imbottita, sicura, rappresenta quell’ambiente materno che non è riuscito mai ad allontanare, l’utero.
La paura di morire, della “fine” di una vita, che cerca di combattere nell’immutabilità della pittura, lo porta addirittura ad evitarne “l’inizio”. Egli, non è una persona morta, è una persona mai nata. Tuttavia pur essendo bambino, ne diventa fisicamente l’antitesi. La sua rigidità mentale, in contrasto con la morbidezza infantile, si manifesta attraverso un disturbo psicofisico che porta le sue ossa a sgretolarsi. Ciò che è rigido si rompe, ciò che è elastico si adatta, sopravvive. Egli è privo di quella elasticità fisica ma soprattutto mentale, necessaria per affrontare la propria esistenza.
E’ riconoscendosi in Amélie, che riesce a consigliarli una strada diversa, da quella che lui ha intrapreso tempo fa. E’ ancora in tempo per essere simile al bambino che nuota nell’acqua visto da lei nella videocassetta. Un’altra persona con cui Amélie si scontrerà è, senza dubbio, il verduraio Collignon. Ancora una volta il conflitto edipico non risolto, l’esperienza negativa con il padre, la porta a non tollerare questo personaggio, freddo, insensibile, “senza cuore”, cosa che anche i carciofi che vende hanno, dice la nostra Amélie! Egli non può fare a meno di trattar male il povero Lucien, nel quale l’uomo vede tutto ciò che egli non è riuscito ad accettare di se stesso. Tutto ciò che il suo io, la sua esperienza di vita hanno scartato e messo da parte. La situazione di Lucien, a sua volta, fa da specchio ad Amélie che, ogni volta, rivede inconsciamente davanti a se, l’atteggiamento castrante, anti creativo, che le impediva di frequentare gli altri bambini, come a Lucien è impedito di parlare e di interagire con i clienti. Nasce un feeling. Ovviamente per Lucien l’arte, il modo creativo di interagire con i clienti che mostrerà successivamente, o di dipingere a casa dell’uomo di vetro, diventa l’unico modo di far uscire una carica psichica molto forte, messa continuamente a tacere. Lucien dipinge perché gli è stato proibito di vedere.
Quando denigra Collignon, al posto di parlare, urla, perché gli è stato proibito di parlare. Ovviamente, in termini psicologici, la struttura fisica diviene rappresentazione materiale della struttura mentale. L’uomo di vetro fragile, magro. Riprende le caratteristiche fisiche della struttura schizoide. Lucien, massiccio, riprende le caratteristiche di una struttura tipicamente masochista, se vogliamo, in termini di AT (analisi transazionale), un bambino adattato negativamente. Ma gli specchi non finiscono per Amélie. Un altro è senza dubbio Dominique Bretodeau. Il contrasto che da piccolo ha con l’insegnante, che non gli permette di godere della sua vincita, del suo successo, privandolo della sua autostima, umiliandolo in pubblico e facendogli perdere le biglie vinte al gioco, segnano in maniera traumatica questo persona. Egli, è un altro personaggio castrato da una figura adulta, in Analisi Transazionale, potremmo definirlo un’azione normativa negativa.
L’insegnante, nella mente del povero Bretodeau, fa associare il successo al dolore, la vincita alla perdita, trasformando il successo in una cosa da evitare in futuro. Cosa che purtroppo accadrà! Tutte le cose, i fatti sembrano essere legati insieme. Ma di chi è la regia di tutto questo? Senza dubbio di Amélie, anche se vivrà senza averne piena consapevolezza. Ma, a mio avviso, la cosa più interessante è che tutti i personaggi diventano simboli di una situazione molto più ampia. La loro vita, rappresenta la vita della società intera e di tutte le disfunzionalità che ne caratterizzano lo sviluppo, prima a livello familiare, poi scolastico e così via. Infiniti copioni, mappe cognitive vissute tutte in maniera inconsapevole. Non c’è salvezza neanche all’interno della coppia. Infatti le tre coppie (i genitori di Amélie, i genitori del fruttivendolo, la tabaccaia e il cliente geloso) non comunicano tra loro.
Quello che vediamo è solo gelosia, routine, incomunicabilità e il sesso è, ancora una volta, solo un’esperienza in-sensibile, da porno shop. L’incapacità di entrare in intimità, prima con se stessi, e poi con gli altri, sembra un impresa impossibile per i personaggi di questo mondo. Eppure, tutti sono spinti, chi più chi meno, a eliminare questo bisogno di solitudine, di incomunicabilità, di incapacità di entrare in empatia con gli altri, di godere della vita e delle sue sorprese. Alla fine del film viene detto che ci sono più connessione a livello sinaptico di quante ce ne possano essere nell’universo. In fin dei conti la vita, per quanto complicato e variegato sia il suo modo di manifestarsi nella diversità, ci mostra puntualmente la cosa che tutti noi cerchiamo, e che l’universo e l’umanità intera insegue. Amore.
E’ l’amore che Amélie non trova, che le permette di avere i codici per evidenziare negli altri questa problematica e cercare di risolverla. Lei si mette da parte, e cerca di far fare agli altri tutto ciò che lei inconsciamente cerca di evitare. Fa nascere la passione tra la malata immaginaria del bar e il signore ossessionato dal tradimento, dall’abbandono. Fa vedere i particolari che il signore cieco non può vedere. Insomma, delega, preferendo guardare la realtà per conto degli altri, piuttosto che farlo per se stessa. Nel dipinto la ragazza con il bicchiere d’acqua “Forse è solo diversa dagli altri” è la metafora pittorica di Amélie: una che se ne sta fuori dal coro. Ma, in conclusione, al di là delle critiche a sfondo psicologico, questo mondo cos’è se non un intreccio infinito di possibilità, una continua messa in scena, nel bene e nel male, della soggettività di ognuno di noi? Che ci permette, in fin dei conti, di vedere parti diverse di un’unica realtà!
Frediano Augusto Mura

I Malavoglia e La Terra Trema


“Il verme disse alla pietra: Dammi tempu ca ti perciu!”. (Antico Proverbio Siciliano).

La Sicilia ed i Siciliani sono al centro di numerose opere d’arte: pittoriche, letterarie e cinematografiche che siano antiche, moderne, o contemporanee. Al centro dell’articolo che ci accingiamo di seguito a scrivere rientrano due fra le opere sopra citate. L’una è il romanzo celeberrimo diGiovanni Verga, vale a dire I Malavoglia (1881, edito daTreves). L’altra ne è quasi il diretto derivato, ispirato a questo libro, cioè il capolavoro cinematografico dell’indimenticato maestro Luchino Visconti: La Terra Trema(1948). Nonostante Visconti s’ispiri a Verga riscontriamo dei distinguo essenziali nella struttura dei due “testi”, tenendo comunque bene a mente le evidenti ed imperanti analogie. In primis, il verismo è riletto efficacemente con la lente d’ingrandimento neo-realista. Lo spirito di straniamento del primo è riconvertito nella lucida e sistematica analisi documentaria. Il registro linguistico, pur considerando il mantenimento dell’arcano linguaggio quasi cifrato e codificato della proverbialità popolare, cambia nettamente. L’italiano adattato dal linguaggio popolare del romanzo si trasfigura nella lingua strettamente legata ad una koinè dialettale ancestrale nei dialoghi della pellicola. “In Sicilia l’Italiano non è la lingua parlata dai ceti più poveri” spiega lo stesso Visconti in maniera iconoclastica in una didascalia presente all’inizio del film: è la perfetta giustificazione della sua scelta. Ed è una scelta coraggiosa da mettere in pratica. Nel secondo dopoguerra, quando il film è girato e contemporaneamente ambientato, si respirava ancora l’atmosfera di emarginazione nei confronti delle realtà linguistiche regionali e locali osservata con rigida ottemperanza durante il regime fascista. Questo andazzo fu in piccola parte corretto dalla temperie neorealista, nonostante vigesse un’insipida continuità post-fascista perpetrata dalla Democrazia Cristiana. Il sostrato culturale dei due artisti oggetto della nostra indagine, infatti, è molto differente. Verga porta avanti un’ideologia nazionalista e, non di rado, codina e reazionaria. Visconti, seppur di nobili origini, invece s’interesserà alle masse ed al loro degrado miserevole. Suo maestro cinematografico e di vita sarà Jean Renoir, il quale lo avvicinerà alle idee del Partito Comunista. E Luchino alPCI sarà legato fino alla morte. Vi è anche una differente idea del concetto di “vinto”. Per Verga i Malavoglia(‘ngiuria antifrastica, ovvero soprannome, per la laboriosa famiglia Toscano) devono le loro disgrazie al fato sfavorevole. Comune ai due maestri è la concezione di sventura sopravvenuta alla volontà di cambiare e di migliorare la propria posizione sociale, ma in Visconti qualcosa cambia radicalmente. I Valastro non hanno nel fato il loro principale avversario. Nemico principale per la loro sopravvivenza di pescatori è il reiterato sfruttamento da parte dei grossisti. Il fato dunque diventa lotta di classe contro la prevaricazione capitalista di marxiana memoria. Dunque in ‘Ntoni (uno dei pochi nomi mantenuti dal libro al film) la ribellione ha una genesi e degli sbocchi diversi nelle due distinte epiche familiari. Il verghiano ‘Ntoni decide di infrangere lo spirito familiare e familista dopo aver preso coscienza del “favoloso mondo continentale”, che gli fa sviluppare un desiderio di ricchezza per la propria famiglia e, soprattutto, per sé: la sua spinta è quindi materialmente individualista. Nel viscontiano ‘Ntoni, invece, emerge un senso di ribellione ad un sistema iniquo, in nome di un miglioramento di condizione sociale sia proprio, sia anche di tutta la categoria corporativa cui appartiene, microcosmo di un anelito globale all’intera lotta di tutti i lavoratori. Pertanto la sua spinta è principalmente collettivistica. Nella retrograda Aci Trezza, sfondo comune di entrambi gli scenari, il suo impegno paga un oneroso dazio fatto di incomprensione e scherno. Infine osserviamo lo zeigeist comune intriso di profondo pessimismo. E nel passaggio da Verga a Visconti anch’esso acquisisce connotati leggermente differenti. L’opera narrativa verghiana è tesa a mostrare l’inutilità del progresso della storia e, per contro, l’indifferenza di questa. Un eterno ritorno dell’uguale di cui il destino come entità è imperituro sovrano. L’opera filmica viscontiana, invece, ha un sapore leggermente diverso. Ovviamente i Valastro sono dei vinti, dei dis-integrati. Ma è lo spirito ideologico il vettore del cambiamento, soffocato ineluttabilmente dalla meschinità e dalla cattiveria popolana. Emblematiche nel film le scene in cui i muri sembrano prender vita e comunicare interi concetti con dei semplici richiami visivi. Un simbolo del Partito Comunista, una falce ed un martello, che progressivamente si deteriora e si scalcifica dal muro su cui è stato impresso. Oppure le incisioni inneggianti aMussolini e al Popolo d’Italia, giornale fascista, negli uffici alle spalle degli aguzzini della famiglia Valastro. Questo pessimismo perciò è teso anche ad incoraggiare lo sdegno, a creare consapevolezza attorno al degrado ed a rendere una misura adeguata della miseria, come soltanto il neo-realismo nella Storia del Cinema ha saputo fare. Poiché i due simulacri posti sul focolare dei Valastro, un’immagine sacra (la religione) ed una foto ricordo dei congiunti (la famiglia), più che segnalare la fiducia e l’adesione totale a questi valori ne espletano al contrario la totale sconfitta ed assenza. Chiudiamo l’articolo sperando di aver suscitato l’interesse fra i nostri lettori nei confronti di ambedue le opere. Indubbiamente entrambe rappresentano imprescindibilmente una sorta di istantanea della Sicilia di ieri, oggi e domani. A volte realtà di indigenza così apparentemente lontane convivono proprio accanto ai nostri paradisi artificiali e preconfezionati. Sta soltanto a noi aprire le nostre menti per rendercene conto.

Simone Bellitto

The Modern Dance



Solo i veri capolavori sono capaci di addentrarsi nelle viscere del loro tempo al punto d’ infrangere la diga della contingenza storica e di affluire nella mortale immortalità della storia umana, fino a confondersi con essa. È questo il caso dell’Amleto, dell’Odissea, di Edipo, di “The Modern Dance”.
Anno di grazia 1974, il “Power of flowers” è solo uno sbiadito ricordo, gli hipsters hanno smesso di essere “brutti, sporchi e cattivi”; Jimi Hendrix è morto e i Jefferson Airplane è come se lo fossero. Finito Woodstock, finito il “peace & love”, finito il sogno di uguaglianza, fratellanza e amore libero. Tutto è tornato com’era: i ricchi sono tornati a mangiare caviale e i poveri sono ancora poveri, la guerra del Vietnam continua; ad un repubblicano (Nixon, annegato nello scandalo Watergate) succede un altro repubblicano (Gerald Ford);  Bob Dylan suona in frack e per gli Stones è ormai “solo Rock ‘n’ Roll”. Non mancano certo artisti ancora in grado di sfornare grandi capolavori (si pensi a “Rock Bottom” di Robert Wyatt)  ma essi restano sporadici picchi di un elettroencefalogramma che si appresta alla totale piattezza. La verità è che la musica psichedelica non è più in grado di rappresentare le nuove generazioni e anche quand’era in auge si preoccupava più di astrattismi e sofisticherie intellettuali  che dei reali problemi dell’uomo medio; i barocchismi e il dandysmo metrosessuale delle nuove correnti  “progressive” e “glam”, nate in Inghilterra alla fine degli anni 60, sembrano più adatte alle “fighette” di Oxford  che ad una società che sprofonda sempre più inesorabilmente nel pantano capitalistico-industriale. <<Serve una nuova musica, una musica che evochi le turbe psicologiche dell’individuo medio, capace di dar voce ai traumi delle “vittime” della moderna societa`>> questo pensava Peter Laughner giovane chitarrista di Cleveland, città operaia sulle rive del lago Erie. Conscio del nuovo sound punk proveniente da New York, Laughner fonda, insieme all’amico e cantante David Thomas, i Rocket from the tombs, riscuotendo un discreto successo nel circuito cittadino.
Nel ’75 la band incide i primi singoli “30 seconds over Tokyo”, “Sonic reducer” e “Life stinks” nei quali Laughner e compagni riversano tutto il masochismo, gli incubi, la desolazione della loro generazione: “don’t need a cure, need a final solution”, ” (…) I can’t blink, I need a drink, I can’t think ’cause life stinks”. Nel ’76 dopo parecchi cambi di formazione la band si scioglie, Laughner e Thomas si trasfericono a New York e fondano i Pere Ubu, gli altri membri della band danno vita ai Dead Boys. Nella Grande Mela si uniscono alla band il chitarrista Tom Herman, il bassista Tim Wright e il tastierista e sassofonista Allen Ravenstine. La nuova formazione desta subito sensazione: oltre all’originalità del sound, colpiscono, soprattutto, le esibizioni di David Thomas, il più atipico front-man della storia del rock: alto, grasso, goffo, sembra l’incarnazione stessa della maschera teatrale creata da Alfred Jarry. Dotato di una voce prodigiosa che riesce a spaziare dagli acuti di Marvin Gaye ai ruggiti di Howlin’ Wolf. Sul palco, il David Thomas fervente testimone di Geova, si trasforma nel grottesco profeta della nuova generazione, vomitando sul pubblico tutti i suoi dubbi esistenziali, i suoi complessi, le sue paranoie e le sue pulsioni schizofreniche. Sul finire del 1977 Peter Laughner lascia la band per dedicarsi ad un progetto solista, morirà qualche tempo dopo a causa di un’overdose di eroina. Perso per strada anche Tim Wright, sostituito da Tony Maimone, i Pere Ubu entrano in studio per registrare uno dei più grandi capolavori della musica del novecento. “The Modern Dance” <<è un affresco sconvolgente e drammatico della condizione operaia>>. Nella società industriale, la morte non è più fisica ma spirituale, l’angoscia non è più dovuta al timore di una nuova guerra o di un olocausto nucleare, ma all’alienazione e alla frustrazione causata dalle dinamiche economico-industriali. Come automi seguiamo meccanicamente il tempo della “fabbrica”, della produzione. È la “danza moderna” e stiamo tutti ballando. L’album si apre con  un suono lungo e stridente, il basso accenna tre accordi, pausa… Un selvaggio riff di chitarra annuncia l’inizio di “Nonaligment pact” travolgente e dissonante baccanale punk, un caotico vortice di distorsioni elettroniche, schitarrate scordate, nevrotici gorgheggi vocali.
Segue la title-track “The modern dance”. Ticchettio metallico e sbuffi di fumo battono il tempo, vociare di folla in sottofondo, è il ritmo della fabbrica, è la cadenza marziale della danza moderna; su di essa vibra, disperata e sguaiata, la voce di David Thomas. “Laughing”, a differenza dei primi due brani, inizia in sordina: batteria scarna, una dissonante improvvisazione di sax in sottofondo, solo il basso disegna una linea armonica, improvvisamente il brano esplode in una folle fanfara boogie. Il blocco centrale dell’album dimostra tutto l’eclettismo della band: un’alternanza di rock ‘n’ roll atomici (“Street Waves, “Life Stinks”, “Real World”) e contorti e alienanti raga lisergici di rumori, distorsioni e dissonanze (“Chinese radiation”, “Over my head”, “Sentimental journey”) che adornano i deliri vocali di David Thomas. Chiude l’opera “Humor me”, paradossale pezzo dove il cinismo beffardo del testo viene mascherato dalla giovialità, quasi clownesca, della musica. The Modern Dance è il rito funebre di un’umanità che s’appresta alla catastrofe, <<una pagana rappresentazione della fine>>. Sono passati più di trent’anni dalla pubblicazione di quest’album eppure esso riesce ancora a entusiasmare per la freschezza e l’originalità del sound, per lo humor cinico dei testi. The Modern Dance è un’opera dalla quale nessun amante della musica può prescindere.
Gabriele Felice