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giovedì 17 gennaio 2013

Priapo e il suo pene - Francesco Conti


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Cosa non fecero per possederla i Satiri, giovani dediti
alle danze, e i Pan con le corna inghirlandate d'aghi
di pino, e Silvano, sempre più giovanile
dei suoi anni, e quel dio che spaventa i ladruncoli
con la falce e il pene!


Ovidio, Metamorfosi, Libro XIV


Statuetta raffigurante Priapo

Priapo o Priapus, era una divinità mitologica nata nell’antica Grecia e il suo culto diffusosi successivamente nell’antica Roma. Di aspetto orrendo, la sua peculiarità consisteva nel possedere un pene di enorme dimensioni. Oggi sembra osceno e immorale immaginare una divinità con un fallo enorme, ma secoli fa, tutto veniva interpretato secondo gli usi sociali e religiosi del tempo, dunque non desti meraviglia se un fallo gigante veniva raffigurato in affreschi, vasi, e i suoi ciondoli appesi a un collo e ad un braccio.

La mitologia narra che Priapo nacque dall’unione di Dioniso e Afrodite, ed Era la regina degli Dei, diede un aspetto orribile e osceno al fanciullo per la promiscuità della madre. Un aneddoto interessante è il suo tentato stupro nei confronti di Estia (dea della casa), durante un banchetto divino in cui gli dei riposavano; il ragliare di un asino destò Estia che cacciò via Priapo ormai pronto a cavalcare la dea; da questo aneddoto la figura dell’asino ricade nell’immaginario di Priapo; l’asino è l’animale più importante nella vita contadina e possiede tra l’altro un pene di notevoli dimensioni. 


Un affresco di Priapo



Spesso la figura stessa di Priapo viene associata al padre, Dioniso, che simboleggia l’energia vitale in natura ove scorre nei mesi estivi e primaverili per poi cessare in inverno e rinascere nuovamente in primavera, (detto popolare “La primavera è la stagione degli amori” ), quel dio che è manifestazione nei frutti, nella natura, e l’uomo se ne ciba, simboleggiando con lui la sua unione. Ecco perché Priapo è il dio che protegge i campi, il guardiano dei vigneti, dei giardini, dei frutteti, dei pesci, delle api, colui che allontana i malocchi e i malefici.  La sua natura ereditata dal padre, è la fertilità, la vita come Zoé (ζωή), il seme (lo sperma nell’uomo) di ogni cosa da cui scaturisce il tutto.


Chi cercherà di saccheggiare con le sue mani
da ladro questo campicello che mi è stato affidato,
sentirà su se stesso che non sono un castrato.
Forse egli fra sé e sé dirà “nessuno verrà mai a sapere che
io sono stato rotto di dietro in questo luogo remoto fra i cespugli”.
Ma si sbaglia, perché la cosa si svolgerà davanti a dei grossi testimoni.

 Carmina Priapea XV – Minacce ai ladri (Virgilio)

Un affresco di Priapo

Per comprendere chiaramente l’immagine di Priapo, bisogna accennare alcuni rituali dell’antichità e precisare la stretta correlazione Dioniso – Bacco – Priapo e tracciare una linea generale della sessualità. Dioniso nel mondo romano assumerà il nome di Bacco e dunque per comprendere Priapo (nella religione, nella letteratura e nella società di allora), bisogna trattare parzialmente quei culti dediti a loro: culti dionisiaci e le baccanali dove la figura di Priapo era spesso presente e associata a loro.

culti dionisiaci erano culti misterici e religiosi in onore di Dioniso e considerate le prime forme di espressione teatrale nel mondo greco. Nell’immaginario comune di questi culti ricadono le orge dionisiache, dal greco (órgia pl.), pratiche sessuali che simboleggiavano la rinascita di Dioniso e dunque della vitalità che inizia a scorrere in primavera. Questi culti si diffusero maggiormente nel mondo romano, prendendo il nome di Baccanali, prevedendo sacrifici animali, processioni (come le falloforie, vedi sotto), orge, danze in onore di Bacco (dio del vino). Il mangiare carne cruda, il cibarsi dei frutti, il danzare con movimenti casuali e prive di regolarità, l’ebbrezza causata dal vino, rappresentavano per questi culti un’unione diretta con la divinità. La divinità e la sua linfa vitale tramutatasi in vino si impossessava dell’uomo, e con ciò si manifestava la contentezza della vita, ci si abbandonava all’ebbrezza e all’estasi.  


“ Evoè ! “ gridavano le Baccanti (sacerdotesse di Dioniso) durante le processioni, un grido come inno alla vita, che non cessa mai di scorrere, che rinasce continuamente dopo la morte. In questo contesto la morte era associata all’inverno, mentre la rinascita era associata alla primavera, ecco perché i culti dionisiaci e i baccanali erano svolte nel mese di Marzo, dove la natura inizia a risvegliarsi e con essa anche la linfa sessuale: la natura e il suo ciclo infinitesimale in morte/vita, inverno/primavera. 

Danze 

I baccanali furono soppressi nel mondo romano il 7 Ottobre del 186 a.c. col SENATO CONSULTO de BACCHANALIBUS. Il senato vietò ciò (si legge nel testo dello storico Livio) per la condotta immorale dei seguaci di Bacco, per la depravazione  e la sodomia utilizzata in tali culti, contrariamente gli storici di oggi ribadiscono che tutto ciò potesse essere solamente opera della fazione conservatrice e tradizionalista del senato (capeggiata da Catone), che riteneva tali culti un pericolo per la società romana e Roma stessa: in massa partecipavano ai baccanali, perfino gli schiavi, e il cittadino romano doveva assumere una posizione attiva nel rapporto sessuale che stava a indicare la sua appartenenza a Roma, mai passiva che rappresentava una condizione di inferiorità (schiavo); il cittadino che aveva un ruolo passivo nei rapporti sessuali era soggetto a multe e a sanzioni e tale legge sembra che venisse aggirata durante un baccanale; inoltre c’è da dire che i baccanali erano organizzati in associazioni e sette segrete, cosa che l’Urbe non accettava per paure di rivolte schiavili. 

[...] A entrambi i consoli fu assegnata la procedura contro le sette segrete.La cosa partì da un Greco sconosciuto che venne in Etruria non gia recando qualcuna di quelle arti che quel popolo maestro fra tutti diffuse fra noi a delizia dello spirito e del corpo; era un praticante di riti e un indovino,e non gia uno che in­sinuasse l'errore nelle menti con pubblici riti,professando apertamente una sua arte a scopo di lucro, ma un sacerdote di riti segreti e notturni: misteri quelli, a cui pochi in origine furono iniziati,e che poi cominciarono a diffondersi senza distinzione fra uomini e donne. Al rito si aggiunsero le delizie del vino e dei banchetti, perché fossero di più le menti attratte nell'errore. Quando i fiumi del vino, la complicità della notte e il trovarsi confusi maschi e femmine, fanciulli e adulti ebbero cancellato ogni limite posto dal pudore, cominciarono a commettersi depravazioni di ogni genere, poiché ognuno vi trovava pronto soddisfacimento per quello a cui eran più portate dall'istinto le sue voglie. E non ci si limitò a un solo genere di malefici, come violenze indiscriminate su uomini liberi e su donne, ma anche false testimo­nianze, falsificazione di suggelli nei testamenti e delazioni uscivano da una stessa fucina, e sempre di là azioni di magia e delitti familiari, al punto che a volte non restavano neppure i corpi da seppellire. Molto si osava con 1'insidia, ma di più con la violenza. A nascondere la violenza valeva il fatto che per le grida e il fragore dei timpani e dei cembali non si po­teva udire la voce di quelli che gridavano aiuto fra gli stupri e le uccisioni […]

Tito Livio, Ab urbe condita, libro XXXIX


Nonostate il senato consulto, i baccanali sopravvissero durante gli anni ma la loro essenza misterica fu  abbandonata, spogliata dal suo punto di vista associazionistico e perpetuandosi come semplici cerimonie divine, per poi riapparire nell’epoca imperiale (I sec. d.c).


Falloforia

Riprendendo l’uso di Priapo, possiamo citare le falloforie, processioni dove si trasportavano enormi falli in legno, (anche decine di metri) con la rispettiva irrigazione del campo con acqua e miele. È chiara l’analogia tra il  miele/acqua con lo sperma del dio Priapo in grado di generare vita nei campi e di proteggerli. Il pene dunque nell’antichità era lo strumento della vita, il VIS GENITALIS (forza generatrice) in natura e la sua forma utilizzata nella società romana.   

 […] in testa venivano portati un'anfora piena di vino misto a miele e un ramo di vite, poi c'era un uomo che trascinava un caprone per il sacrificio,seguito da uno con un cesto di fichi e infine le vergini portavano un fallo con cui venivano irrigati i campi. […]

Plutarco, l’avidità delle ricchezze libro VIII


 Il fallo dunque era un simbolo di prosperità, di fecondità e di protezione contro i malocchi e le maledizioni. Molti cittadini romani e gran parte dei legionari possedevano ciondoli con il fallo di Priapo e le abitazioni il Tintinnabulum, un campanello di bronzo a forma di pene posto all’entrata. Anche nella gestualità quotidiana Priapo ebbe un grande impatto: l’uso di toccarsi i testicoli durante il passaggio di un corteo funebre (toccarsi le parti “vitali”); i testicoli sono il garante della vita contro il malocchio e la morte stessa.


Tintinnabulum



Anche in letteratura riscontriamo la sua presenza, in suo onore furono composte le Carmina Priapea, 80 epigrammi proibiti di cui l’origine ne è incerta con l’aggiunta di poesie di Virgilio, Marziale, Catullo, Orazio, Ovidio. Nonostante il divieto di parole proibite e l’indecenza nell’udir tali parole, il fabbisogno naturale di trattare temi sessuali e di sabotare l’ipocrisia morale e le apparenze del tempo, sfociava nella composizione privata di tali proemi. La maggior parte degli epigrammi priapei tratta la punizione che la divinità può infierire ai ladri, dato che egli è il protettore dei campi e del raccolto e qui sono riportati i numeri 15,18,22,29,50.


Avercelo grande – XVIII
Un vantaggio ben grande ha il mio pene:
che nessuna donna è per me troppo larga.


Pene per i ladri – proemio XXII
Se mi derubano una donna o un uomo o un giovincello,
quella mi offra la fica, il secondo la testa, il terzo le natiche.


Un passante a Priapo – XXIX
Che possa morire o Priapo se non mi vergogno di usare
parole sconce e oscene; ma quanto tu, che sei un dio, lasciato
da parte ogni pudore mi esibisci i tuoi coglioni in
bella mostra, anche a me vien da dire cazzo e fica.


Minacce ai ladri – proemio XV
Chi cercherà di saccheggiare con le sue mani
da ladro questo campicello che mi è stato affidato,
sentirà su sé stesso che non sono un castrato.
Forse egli fra sé e sé dirà “nessuno verrà mai a sapere che
io sono stato rotto di dietro in questo luogo remoto fra i cespugli”.
Ma si sbaglia, perché la cosa si svolgerà davanti a dei grossi testimoni.


Richiesta di una grazia – L
Una certa ragazza troppo falsa (se, o Priapo vuoi concedermi
la tua benevolenza) mi prende in giro, e non me la
dà, ma neppure dice di non volermela dare: sempre trova
una scusa per rimandare.
Se tu farai sì che me la possa godere, o Priapo, cingeremo


Un altro interessante culto simile a quello priapeo e dionisiaco fu il culto di Libero, sviluppatosi dopo la soppressione dei culti baccanali (citati sopra) nelle campagne, con le rispettive falloforie, aspramente criticate da Sant'Agostino :

[…] A una grande sconcezza giunsero i misteri di Libero, poiché lo preposero ai semi liquidi e quindi non solo alle parti acquose dei frutti, fra cui in certo senso il vino ha il primato, ma anche ai semi degli animali. Mi rincresce di parlare di essi perché richiedono un lungo discorso ma ne parlo egualmente per colpire l'ottusità dei pagani. Sono costretto a tralasciare varie notizie perché sono molte. Fra le altre, stando a Varrone, nei crocicchi d'Italia furono celebrati i misteri di Libero con tanta licenziosità che in suo onore si ebbe un culto fallico, e almeno fosse avvenuto in un luogo un po' appartato ma in pubblico con sfrenata dissolutezza. Infatti durante le feste di Libero uno sconcio membro virile, esposto con grande solennità su un carretto, veniva trasportato dapprima in campagna nei crocicchi e poi fino alla città. […]

Agostino , La città di Dio (Libro VII, Il culto fallico di Libero)

Cippi fallici del Salento

Con la soppressione dei culti pagani da parte degli imperatori cristiani, tali cerimonie scomparvero, ma non definitivamente, e tutt’oggi alcune aree del Salento e dell’Italia meridionale conservano inconsapevolmente l’uso di cippi a forma fallica, un simbolo di protezione della terra.

Francesco Conti







Bibliografia
Agostino , La città di Dio (Libro VII)
Carmina Priapea
Plutarco, L'avidità della ricchezze, libro VIII
Robert Graves (19454), I Miti greci
Alberto Angela (2012), Amore e sesso nell’antica Roma , cap. VIII
Wikipedia
www.romanoimpero.com
Tito Livio, Ab urbe condita, libro XXXIX
www.salogentis.it









mercoledì 21 novembre 2012

L'aspetto più divertente del potere: la necessità del non essere, di Natale Anastasi

Siamo impossibili perché in(de)finite sono le nostre possibilità

«I bisogni indotti dal vecchio capitalismo erano in fondo molto simili ai bisogni primari. I bisogni invece che il nuovo capitalismo può indurre sono totalmente e perfettamente inutili e artificiali. Ecco perché, attraverso essi, il nuovo capitalismo non si limiterebbe a cambiare storicamente un tipo di uomo: ma l’umanità stessa. Va aggiunto che il consumismo può creare dei “rapporti sociali” immodificabili, sia creando, nel caso peggiore, al posto del vecchio clerico-fascismo un nuovo tecno-fascismo ( che potrebbe comunque realizzarsi solo a patto di chiamarsi anti-fascismo); sia , com’è ormai più probabile, creando come contesto alla propria ideologia edonistica un contesto di falsa tolleranza e di falso laicismo: di falsa realizzazione, cioè, dei diritti civili» ( Pasolini,1975)





Premessa riguardo la fiducia:

I rapporti umani sono sempre complessi. Una complessità spesso irrisolvibile che squarcia ogni forma di controllo, di sicurezza, e di cui spesso s'infrange l'omeostasi. Difficilmente infatti due parti combaciano insieme nello stesso mosaico, e ancor più di rado l'essere insieme è duraturo in mancanza di quella frivola e momentanea emozione chiamata infatuazione. Quando finisce "la passione" si è soliti affermare che i rapporti sono ormai sciolti. C'è chi invece sostiene che per star bene insieme si dev'essere in grado di saper vivere da soli, senza bisogni né dipendenze da caricare sugli altri. Da tutti questi momenti, che spesso diventano assai problematici, ci si pone la domanda: quale collante, se non la fiducia, l'aver fede, ossia l'amore nell'Altro, può permettere al rapporto di maturare, crescendo e superando i propri limiti ?

Eppure, quando la volontà si infrange sulle scogliere dell'immaturità e, schiavi delle proprie mancanze e dei propri limiti, ci si crede impossibilitati a rispettare la fiducia altrui, e ci si crede davvero manchevoli, avremmo bisogno d'indagare i perché delle nostre azioni e se davvero chi ci sta dinanzi e che magari abbiamo fatto soffrire non ha fatto nulla per meritarsi ciò. Bisognerebbe avere quindi la forza di chiarirsi prima con se stessi e poi con gli altri. Considerando sempre se gli altri abbiano recepito ed accettato ciò che doniamo, e se davvero interessa loro. 
La risultante è, quindi, che ci vuole autostima per essere all'altezza di meritarsi la fiducia e il rispetto, ma ancor di più ci vuole maturità per selezionare le persone che vogliamo davvero con noi. Un rapporto è sempre un affidarsi reciproco e quando vi sono delle incomprensioni e/o delle gravi mancanze che deteriorano il rispetto reciproco o univoco, si scade o nel do ut des, o nel cameratismo (si sta insieme perché non si può fare altrimenti), nell'opportunismo, nel comodismo (stare insieme per abitudine) o ci si allontana, prima o poi, nel silenzio senza spiegazione. A volte, ancora, la morale personale richiederebbe un comportamento altrui simile a quello che noi adotteremmo su noi stessi e verso gli altri, mentre invece ci relazioniamo con persone da cui bisogna aspettarsi sempre di tutto e che risponderanno alle nostre azioni nel loro modo di essere. E ancor maggiormente chiedersi: con quale disposizione d’animo, con quale approccio, con che intenzione ci poniamo le domande sui significati di ciò che da noi si dipartirà? Identità appunto intesa come continuità di divenire chi si è, non come sforzo ad essere ciò che gli altri vorrebbero da noi. Si imita non imitando, imitando chi imita costruiamo la riproduzione di una statua di sale.  

Quindi, dato che soltanto raramente otteniamo ciò che ci aspettiamo di ricevere dagli altri, c'è il rischio di idealizzare fin troppo i rapporti per le nostre finalità, legandosi alle immagini mentali create su chi crediamo ci stia dinanzi, che però non corrisponde agli schemi concettuali che, seppure inconsciamente, abbiamo creato. Come dire, in altre parole, che dall'unione della povertà e dell'espediente necessitiamo d'incontrare parti di noi in altri, cercando tutti i segnali possibili per confermare le nostre credenze sulla reale esistenza di quella che invece è un'illusione, incarnandola affinché possa davvero corrispondere al nostro modo d'essere. Motivo per cui si potrebbero elencare infinite espressioni di uso comune. Sembra pertanto necessaria per molti questa componente affinché possa generarsi ciò che viene chiamato "amore". D'altro canto c'è chi nelle varie forme di philia sostiene sempre una necessaria idealizzazione, per lo slancio emotivo connesso a questo superamento del "razionale", che serve quindi a noi stessi e che crediamo possa donarci l'altro, quando è in atto un processo di simbolizzazione. Negare il possibile superamento di ogni forma d'idealizzazione del resto sembra un'astrattezza se non calata nel particolare dell'esperienza soggettiva; il tentativo qui posto non propone verità assolute e lascia al lettore una risposta aperta. Ma negli imprevisti, su cui si basano gran parte dei momenti delle nostre esistenze, come poter sopravvivere al carico di queste idealizzazioni ? Molto più semplicemente, suppongo sia più auspicabile uno sguardo divergente sulle realtà che osserviamo. Altrimenti saremmo solo frutto del nostro puro narcisismo, del credere che gli altri ci amino quando in realtà l'amore che crediamo di ricevere è solo il nostro, riflesso negli occhi altrui. 

Pensare però che a priori, con strategia, si possano e si debbano costruire dei rapporti basati sulla condivisione di similarità (idee, azioni, interessi vari) non dà l'impressione di rimandare a quell'autentica semplicità ed immediatezza del vivere in prospettive meno chiassose, di spontaneità, e di comprensione intuitiva. Si è insieme, corpi, idee e sogni. Perché "costruire", termine alquanto artificioso, il sentire sul linguaggio verbale e sul pensiero conscio è sempre una porzione molto limitata e limitante della comunicazione ed è proprio l'inconscio a determinare spesso e volentieri i nostri comportamenti a cui non sappiamo dare una spiegazione o che crediamo di averla già data, con certezza ferma. Ebbene, credo che la certezza sia necessaria per poter sopravvivere, ma in alcuni ambiti, come questi appena descritti, occorre essere sempre consapevoli della limitatezza dei propri punti di osservazione. Ci vuole umiltà, conoscenza di sé tramite l'accettazione dei propri limiti, che a volte è possibile superare, e l'ammissione delle possibilità che ve ne siano altri di cui non conosciamo la natura, ma che determinano i nostri modi d'essere. 

Pertanto «il dialogo dovrebbe essere semplicemente un suono fra gli altri, solo qualcosa che esce dalla bocca delle persone, i cui occhi raccontano la storia per mezzo di espressioni visive» (Alfred Joseph Hitchcock).

Da questa premessa posso chiarire ora il punto riguardo al potere, ossia del controllo che si ambisce ad esercitare per la paura e per la convenienza a viversi senza frapporre agli altri le nostre sovrastrutture ideologiche.


Tesi, antitesi e sintesi sul Potere:

L'effetto del non essere è l'atmosfera su cui penso si formi il potere, che a mio parere può esser motivato dalla relazione inconscia dell'esistenza tramite il gesto: nell'azione, nel poiein, da cui si cerca di modificare la realtà virtuale in base alla propria essenza; questa sembra vivere solo nell'attimo in cui l'azione è pensata virtualmente ed ha un corrispettivo successo. Ed il successo, seguendo tale discorso, sarebbe rappresentato dall'effettivo ritorno potenziato di ciò che noi immettiamo nel sistema; il potere si amplifica costruendo su se stesso. Ed il potere moltiplicato si ottiene solo tramite l'imposizione moraleggiante del dover fare, dell'applicare con forza la legge morale universale, cadendo nel moralismo. 
E’ un concetto conchiuso: da un lato della legge procede per indeterminatezza, dall’altro ricava la sua essenza dall’accettazione dei dogmi. Vive nascosto, quindi, perché il suo carattere è l’ambiguità. Non si avanza perciò di un sol passo. Morta l'azione, trascorsa la sbornia pragmatica dello "stare nella realtà", si estingue, esanime, l'esistenza. 

Se l'azione fallisce decade la possibilità di intervenire e, quindi, ci si sente inesistenti perché inefficaci: dei veri e propri fantasmi. Si giunge alla biforcazione: o si desiste, alienandosi e cedendo il passo alle psicopatologie, oppure si potenziano i mezzi a propria disposizione, sfruttando e sfruttandosi, vivendo solo di essi. Stenti.

Si cercheranno tutte le cause del fallimento e ci si imporrà di pensare esattamente nel modo in cui gli altri pensano, perché da sottomettere. Si crea così una sorta di simulacro, uno specchio, un campo di rifrazione in cui viene riflessa la nostra luce, in un bagliore rappresentato dall'azione compiuta; ma l'assenza di azione, dell'esercizio del poter essere, equivale in tal caso al negare la propria esistenza. Si mette in atto un meccanismo di difesa: la rimozione inconscia del "fallire". Il fallimento è l'unico limite che il potere può conoscere, per questo lo oscura. Quindi l'ipotesi: se non esistiamo, perché le nostre azioni non hanno un senso in quanto non hanno successo, si costruisce una realtà artificiale, si vive di simulazione; si rappresenta l'uomo come un cyborg, motivo per cui alla solitudine si sostituisce "la compagnia" del pc, del libro, del boy toy e della girl toy, dell'oggetto in genere, che da strumenti per le nostre intuizioni passano ad essere caricati di totemica forza, opponendo all'anacoretismo la vita in piazza, in strada, con altri esseri. La solitudine può essere un momento cairotico, benedetto, solo se si comprende di stare insieme ad altre forme di realtà - gli animali, le piante, il mare, la montagna, le stelle - aumentando e diminuendo i contatti con la macrorealtà del tempo mondano vissuto appunto dall'homo faber. Diversamente l'oggetto diviene per noi l'unica forma che possiamo tenere costantemente sott'occhio modificandola a nostro piacimento ed ottenendo più facilmente i risultati sperati. Ma l'oggetto, la cosa, sembra essere un'altra forma sdoppiata del nostro Io, del tutto in-esistente, un buco nero a tutti gli effetti, che ha bisogno di creare una realtà aliena rispetto a quella ecologica, opponendosi di fatto alla natura della propria essenza, che non vive solo nella progettualità della techne e dell'artificio, ma anche nell'attesa, nella speranza, nel dubbio, nel sentimento, nella non manifestazione, nell'istintività, nell'immaginazione. 

L’oggetto, tale in quanto mentale, non ha un corrispettivo reale, a meno che non si fondi un reale virtuale (i social network, i simbolo della creazione del profilo psicologico su ciò che si pensa di se stessi). Proprio perché tale concetto è strettamente connesso alla parola “privato”, col quale non si indica un sostantivo ma un participio passato. L’attaccamento all’oggetto, il bisogno di possesso, l’istinto di proprietà, sono tutte derivazioni e propaggini teoriche indotte dal sistema della logica scolastica amplificato dal pensiero illuministico, come ben espletato ne La Dialettica dell'Illuminismo da  Adorno e Horkheimer: esso si ripercuote sino ai nostri giorni per mezzo della negazione del carattere d’indeterminatezza degli universali. Curioso potrebbe essere perciò l'aggancio possibile con il correlativo oggettivo: "una serie di oggetti, una situazione, una catena di eventi pronta a trasformarsi nella formula di un'emozione particolare"; che nega dunque le caratteristiche, i confini epistemici, della sfera concettuale dell’oggetto che siamo diventati per noi stessi. I confini inesistenti tra l’oggetto, la cosa in sé, e le varie forme espressive di realtà generano però una barriera logica e proposizionale.
Dalla deduzione all’induzione non si chiarifica l’essenza e ci si reca nella radura dell’ideale: «odioso tutto ciò che mi istruisce soltanto, senza accrescere o vivificare immediatamente la mia attività» (Goethe).

E poi, in quest'ottica, la volontà di possesso sembra coincidere con l'assenza della volontà. Volontariamente si crede di poter cercare il "potere" su un qualsiasi oggetto, ma il potere è indefinito perché è sempre riferito a "x" . Perciò, se l'avere non coincide con il possedere, perché il primo determina il secondo a suo oggetto, il riferimento non ontologico serve solo a determinare un perimetro del pensiero ma non dell'azione teoretica. «Può tracciare il perimetro di questo importante concetto? Del resto i suoi testi insistono sullo spazio come distanza "mentale». Troppo in fretta si pone il corrispettivo oggettivo con l'aggettivo possessivo.

«[…] se l'ideale coincidesse con la realtà, scriveva Croce in pagine forti e acerbe, non ci sarebbe bisogno di distinguere tra ideale e realtà; e il non coincidere con la realtà non toglie all'ideale nulla del suo pregio, né esonera l'uomo dal fare ogni sforzo per raggiungerlo, o, almeno, dal tendere ad esso, e dal sospirarlo». (Zizek) 




Risulta così impossibile pensare il pensiero senza oggetto: impossibile smettere di pensare.  « Ha senso bramare le “cose”, se domani potranno non essere più mie? ». Non è tutto, purtroppo: ciò che noi siamo può passare tramite le azioni che noi compiamo, quindi che senso ha attribuirsi un significato solo per ciò che riconosciamo come un progetto progettato e realizzato, secondo noi, razionalmente? Quale pensiero è razionale, quale no, chi è razionale, chi è folle ? Le fandonie dell'accademia credo siano delle definizioni per correggere il dubbio allo scarto esistenziale. Funziona così il nostro gioco, basatevi sulle nostre regole, altrimenti non state nella realtà.
Ma, come insegna Thomas Kuhn ne La Struttura delle Rivoluzioni Scientifiche non esiste nella teoresi altro che il paradigma, quell'insieme di teorie condivise da un gruppo che ne sottomette un altro per confermare le proprie credenze con esperimenti ad hoc. Non occorre nessun algoritmo di come la scienza debba essere universalmente esatta, se non si vuol ridurre tutta l'esistenza al linguaggio imposto dell'oggetto. Non è una prova a favore del relativismo, certamente, ma della relatività dei saperi. Perché tra relatività e relativismo esiste una sola differenza: l'esperienza vissuta che, in quanto immediata ed autentica per questo, non abbisogna, in determinate condizioni in cui il regno della quantità e della qualità si è affievolito per la rarefazione dell'atmosfera percettiva, di dimostrazioni per assurdo valide per tutti gli esistenti. Si dimostra logicamente solo ciò che si vuol possedere dialetticamente, perché il desiderio di possesso aliena la nostra essenza dal nostro corpo, per delegare un movimento triadico e circolare al fine di "accorgersi" che la proprietà è privazione e la privazione è la morte del Sé. Per questo si ricerca ciò che sfonda le nostre barriere sensoriali: perché ogni stimolo dev'essere più forte del precedente per riuscire a toccarci; così si perde però il gusto del minimale, identificato col mediocre e col banale. Si può esprimere l'esserci in molti modi, e bisogna rendersi conto che ciò che si prova non trova un identico corrispettivo nell'altro: l'empatia verte sempre sullo scarto di esperienza, di sensibilità, di cognizione, e di tutto ciò che nel nostro presente rappresenta un'incognita inconscia e non considerata sul piano razionale.

Non ci si dà pace, per questo in molti e per molti, pensiamo alle relazioni appunto, non esiste la pace. D'altronde l'atto del manifestarsi potrebbe esser dovuto all'aspettativa che dobbiamo mantenere su di noi e l'azione quindi è tale solo se è pubblica, evidente sul piano oggettivo perché sovrasta sulle altre. Arriviamo così dall'ipotesi alla tesi, al sostanziale dubbio iperbolico: siamo impossibili perché in(de)finite sono le nostre possibilità. Si giunge così alle psicopatologie di massa, al culto della persona, al self made man, alla dittatura. Poter essere coincide quindi con l'ansia del divenire un progetto compiuto, quando si è già immersi nel divenire ed il progetto si compie anche senza la nostra consapevolezza. Insensato porre quindi un Ego davanti allo specchio per generare un duplicato attivo, perché la differenza tra l'interiorità e l'esteriorità è mutuata dal fallimento e dal successo dell'azione sul mondo. Quindi, se il successo e il fallimento sono soltanto delle illusioni dello stato umano che si rapporta al mondo con la premeditazione sugli effetti necessari che si otterrebbero dalla sua azione, cosa resta ? Il rapporto frammentario dell'Io col proprio ambiente, con la comunità, e la strenua ricerca del non essere ciò che si è immediatamente, per costruirsi delle infinite possibilità formali basate sul razionalismo e sulla credenza valoriale. Se l'azione “vale” solo se ha quell' effetto che noi vogliamo, si giunge all'idealismo del nostro tempo: la tecnocrazia. E la forza della tecnica proporrei di visualizzarla secondo un’accezione proustiana dell’abitudine, perfettamente consonante a mio avviso al concetto humiano di uniformità della natura, secondo cui «la costanza di un’abitudine è di solito proporzionale alla sua assurdità». Una giusta proposta per la conclusione pare quindi il seguente pensiero, non credete ?

«Guardo spesso indietro nel mio passato e mi dispera il tempo che ho impiegato a trovare questa soluzione. Ho una sola consolazione: quella di dirmi che mai ho potuto usare forme procedenti da vie logiche, ma solo quelle che un interno impulso faceva nascere in me. Mai ho potuto "combinare" una forma: ogni forma voluta mi ripugnava. Quelle di cui mi sono servito nascevano spontaneamente, mi si presentavano già pronte davanti agli occhi, non mi restava che copiarle; oppure si formavano mentre lavoravo e spesso avevano il potere di sorprendermi. Con gli anni appresi a guidare un poco questa forza creatrice. Mi sono esercitato a non lasciarmi semplicemente andare, ma a dirigere e a frenare la forza che opera in me. Con gli anni ho imparato che il lavoro con il batticuore, un senso di oppressione al petto e di angoscia in tutto il corpo, con dolori intercostali, non basta. Può salvare l'artista ma non la sua opera. Il cavallo porta il cavaliere con forza e velocità, ma il cavaliere guida il cavallo. Il talento trascina l'artista con forza e rapidità verso grandi altezze, ma l'artista conduce il suo talento». (Vasilij Kandinskij)




Natale Anastasi

martedì 20 novembre 2012

Libertà e licenza: due mondi d’appartenenza



La libertà. Essenza ed efficacia. Vincolo e limite obnubilante di contraddizioni semantiche. La libertà non appare essere un orizzonte illimitato, svela bensì un concetto limite, apparentemente astratto ed estremamente fragile da porsi. Senza troppi preamboli, a causa di tale limite, si manca della domanda fondamentale sul senso della libertà. Essa tira in ballo la dialettica dell’Io col suo fine ultimo: la felicità.
Un’ aporia, un arcano che ha sconvolto ogni cultura. In età arcaica, appunto, i Greci credevano nella reincarnazione , nel destino, nella Necessità (Avankn) : il tempo ciclico è la loro quadratura dell’essere, un eterno ritorno e divenire da ciò che è a ciò che fu.
Dove quindi risiede la libertà se non nell’accettazione del proprio ruolo all’interno del cosmo, di un ordine prestabilito? Obbedire agli dèi il sommo motto di quel tempo apparentemente così lontano, la tracotanza (ὕβρις) sempre alle porte.
Ma cosa intendere con “libertà “, in quest’ottica, se non la negazione della stessa? Il cristianesimo delle origini, di contro, tramite la figura di Gesù di Nazareth, ci ha dimostrato che è possibile usufruire del libero arbitrio, con lo scopo di sovvertire, ribellarsi, scuotere letteralmente i templi del potere precostituito, se in noi stessi vi è la forza necessaria per aggregarci al fine di compiere tale impresa.
Ma da dove poter cogliere tale consapevolezza psichica e tale ardimento morale ? L’esercizio della libertà è la base da cui partire. Quando, però, è possibile affermare di essere letteralmente “liberi” ? Varie le posizioni in merito: è l’assenza di condizionamenti esterni, oppure di vincoli interni ? O entrambe, forse? Duemila anni di storia occidentale ci hanno reso protagonisti di “qualcosa” di più profondo.
E’ davvero stata applicata la libertà nelle rivoluzioni ? La rivoluzione francese, ad esempio, il sessantotto, gli anni della contestazione, delle lotte studentesche, delle grandi ideologie, sono espressione di libertà o di licenza ? Chiariamoci : la libertà non è la possibilità di fare tutto ciò che si vuole senza tenere conto degli altri; diversamente, si definisce come licenza questo atteggiamento di noncuranza del benessere collettivo, della comunità.
Il ventunesimo secolo in realtà ha forse estirpato la gerontocrazia plutocratica ? I sistemi totalitari sono ancora presenti, le “democrazie fantoccio” costringono alla clandestinità e all’emarginazione le voci del dissenso, della “diversità” di condizione. La rivoluzione col ferro e col sangue ha cambiato forse qualcosa ? E , nel frattempo, ci viene negato ogni giorno il diritto al pluralismo, alla possibilità di dire la nostra nella realtà, senza omologarsi al sistema di pensiero indotto dal “potere” . La Costituzione, inoltre, viene ogni giorno infangata da chi ha fatto della propria carica istituzionale una chance per accumulare potere, spasmodicamente, all’infinito.
“L’obeso è l’infinito di un Leopardi americano” avrebbe detto Giorgio Gaber .
Chi controlla difatti i controllori ?
La risposta più logica dovrebbe essere “il popolo”, che detiene (?) la sovranità come sanci-to dalla nostra Costituzione. Utilizziamo però il condizionale, perché la sovranità non la si esercita più da molto tempo, se mai nella sua inte-rezza sia stata mai attuata. Superiamo la dogmatica a cui siamo sottoposti da questa “bassa” politica. Siamo sotto regime, sotto il governo della casta. Non si può descrivere e decifrare altrimenti la nostra condizione attuale; ignoriamo il teatro delle finzioni propinateci dai mass-media mondiali. Ignoriamo coloro che parlano di politica italiana senza connetterla al sistema mondiale a cui fa essa riferimento. Non meravigliamoci di sapere che il “nostro” governo tecnico non abbia mostrato davvero intenzione, almeno sinora, di attuare delle riforme real-mente democratiche, di giustizia sociale, perché esso dipende strettamente dai poteri forti delle Banche mondiali, dagli obblighi imposti dall’U.E. e diktat dei partiti di maggioranza che ne garantisce la sopravvivenza solo a patto di non contrastare i loro interessi e di farli arrivare a fine mandato (vd. la questione dei vitalizi, degli stipendi parlamentari, della patrimoniale, ecc.). E come può essere possibile, d’altronde, attuare un piano di ricrescita, superando la recessione, se vengono aumentate scriteriatamente le tasse sulla povera gente? Quale sarebbe la logica per il sacrificio che ci viene richiesto se poi il lavoratore dipendente e autonomo partecipa al prelievo fiscale nella misura dell’80%, mentre i più ricchi, a cui appartiene la maggior parte del prodotto nazionale, vi partecipano solo nel 20 %? Vi è insomma una redistribuzione della ric-chezza nelle mani dell’alta finanza, attraverso la speculazione sui prezzi, che ha già generato le radici del nuovo capitalismo.
All’aumentare del Capitale – che cresce dal 15 % al 25 % – la crescita del Pil non va oltre il misero 3 % . Il sistema finanziario ricava dunque, tramite la produzione di danaro cartaceo, un reddito più elevato di quello derivante dalla produzione di denaro tramite merci. Se poi aggiungiamo che la tassazione sui capitali rientrati è solo del 1,5 % , assistiamo ad una clamorosa, ed ingiusta, manovra. E’ chiaro che la riforma causerà solo un calo della crescita e un aumento della disoccupazione. Inoltre la strategia di privatizzare le prestazioni statali acuisce il clima di latrocinio a cui stiamo incorrendo. Per non parlare dei 18 miliardi di euro stanziati per acquisire 131 caccia bombardieri. Ma per superare questa forte confusione su tali argomentazioni occorre riflettere sui ruoli di Mario Monti e di Mario Draghi: entrambi appartengono alla Goldman Sachs, il primo in qualità di International Advisor, oltre ad essere presidente europeo della Trilateral, l’altro come Vicepresidente per l’Europa. E sappiamo bene come la Goldman Sachs sia una delle principali responsabili della crisi che stiamo subendo. Essa fu salvata solo grazie all’aiuto offertogli da Obama ( furono impiegati ben 7,5 miliardi di dollari per salvarla dalla bancarotta) . Se poi aggiungiamo che i suddetti Monti e Draghi ricoprono un ruolo fondamentale anche nella lobby del Gruppo Bildenberg, il quadro è presto chiaro. La nostra cara Italia è , purtroppo, legata, sin dal secondo dopoguerra, a doppio filo con gli U.S.A. .
Se analizziamo, infatti, la politica in-ternazionale degli ultimi decenni vedremo la grossa mano e il lungo sguardo del potere d’oltremare. L’intervento della C.I.A. negli anni della contestazione, come spiega Pasolini nei suoi Scritti Corsari, fu ingente per sedare le proteste e per minare dall’interno le contesta-zioni, con lo scopo di ristabilire i movimenti neonazisti e neofascisti. Anche la protesta pacifica degli indignados del 15 ottobre fu macchiata e strumentalizzata dalle infiltrazioni di forze sovversive di tal fatta. La mancanza di un pronto intervento della polizia e la mancan-za del servizio d’ordine furono i simboli di questa chiara volontà. Si è pensato a farli mischiare con la folla, per poi , nel caos, intervenire.
“ L’ “operazione Monti’, ad ogni modo, è stata molto raffinata. Il professore, infatti, ha tutte le caratteristiche per essere parte integrante dell’establishment europeo e non solo uno dei suoi bracci. È uno degli “ottimati” che hanno preso in mano il governo dell’Europa secondo uno schema molto semplice: o la nostra politica o il caos”. (F. Bertinotti)
Risulta molto difficile pensare che le istituzioni non fossero state a conoscenza dei preparativi che si stavano orchestrando tramite i blog su internet. In breve: si sarebbe potuta sventare la rivolta. Ma ciò non si è voluto. Ricordiamo il “consiglio” di Cossiga al l’ex ministro dell’ Interno: “Maroni dovrebbe fare quel che feci io quand’ero ministro dell’Interno….Lasciarli fare. Ritirare le forze di polizia dalle strade e dalle università, infiltrare il movimento con agenti pro-vocatori pronti a tutto, e lasciare che per una decina di giorni i manifestanti devasti-no i negozi, diano fuoco alle macchine e mettano a ferro e fuoco le città. Dopo di che, forti del consenso popolare, il suono delle sirene delle ambulanze dovrà sovrastare quello delle auto di polizia e carabinieri.”
Tornando però al discorso principale: questo legame tra U.S.A. e Europa ha favorito la nascita di grandi potentati sovranazionali ampliatisi nei decenni successivi sottoforma di legami commerciali (quali C.E.C.A., C.E.E., EURATOM e dunque B.C.E. ) , politici (U.E.), e di legami militari (N.A.T.O.). E sono proprio infatti proprio questi legami a stabilire le politiche degli stati membri. La politica nazionale è dunque un riflesso delle decisioni prese attraverso i sommovimenti borsistici del mercato.
E’ questo il risultato dell’eccessiva politica di liberismo che è stata attuata. Aggiungiamo, inoltre, che la crisi ha favorito l’aumento della domanda e dell’offerta, ma a seguito dell’impoverimento degli stati, e dell’incremento del debito pubblico, si è favorita ancor di più la criminalità organizzata: la mafia, infatti, sfrutta come un paras-sita questa situazione di debolezza estrema e dispone, rispetto alle banche nazionali, di una grossa liquidità di danaro, impiegabile per sottomettere e corrompere chiunque.
E‟ la guerra del XXI secolo, come sostiene saggiamente Andrea Camilleri, una guerra economica che non si combatte con le bombe, ma che ne ottiene gli stessi risulta-ti: distruggere l’economia di un paese.
Ed esistono appunto progetti, già attuati, ben oltre ogni fervida immaginazione: il New World Order e la globalizzazione sono la nostra realtà . La massoneria, le banche come loro emanazione, i progetti top secret come loro braccia armate (vd. Il progetto di condizionamento climatico – e non solo – denominato con la sigla H.A.A.R.P) , il “Trattato di Lisbona”, la propaganda pro-guerra attuata da decenni per favorire le industrie produttrici di armi, e per l’acquisizione del petrolio.
La stessa crisi che stiamo vivendo adesso potrebbe anche essere stata voluta per far calare il valore dell’euro al di sotto del dollaro, per schiavizzare ancor di più la politica e l’Europa sotto la mano delle logge massoniche americane. Un gioco di monete che punterebbe a far accumulare ancor più potere al petrodollaro, l’arma più vincente delle banche Americane dalla crisi del ’29 ad oggi. Ed è proprio il controllo del petrolio il motivo dell’intervento militare in Libia: non ci furono, sembra, bombardamenti sui civili, e l’ordine di uccidere Gheddafi fu preso dalle potenze straniere, come affermano gli am-bienti sovversivi libici, che eseguirono l’ordine. Inoltre, lo spionaggio internazionale poi ha allargato la sua visuale tramite internet e i social network .
La C.I.A. tiene stretti contatti con facebook: ogni nostra notizia, immagine di profilo, dato, amicizia e condivisione privata è tenu-ta sotto fermo controllo da questi organismi di potere. Diffidate da questa apparente “gratuità”, perché siamo tutti schedati! Il controllo è ovunque, e non si tratta di paranoia.
Allora cosa dire? È forse finita la nostra dissertazione sulla libertà perché il sistema, la società, i burattinai (americani su tutti) ci controllano costante-mente ? Non è di nostra intenzione cavalcare l’onda dell’ antipolitica: cerchiamo di superare la concezione ideologica che ottenebra l’essenza della politica odierna.
Cos’ è dunque la politica? Siamo noi !
Ma il determinismo è così schiacciante tanto da sembrare di poter obliare ogni possibilità di intervento. Ci si condanna a vicenda per un’idea, per una posizione partitica e il mondo cade ogni giorno, sempre più, in rovina. L’incoerenza appare oggi una normalità. Ma il determinismo, l’accettazione genuflessa della nostra posizione, senza avere il minimo sussulto, appare sin troppo ridicola .
Noi siamo artefici del nostro destino e la libertà va al di là di un controllo sociale, perché essa resta sempre ineffabile per qualsiasi tipo di ordine istituzionale. Proprio per questo abbiamo ancora molto da dire per il nostro presente: la nostra arma più letale è l’esercizio della nostra individualità – e non come avvenuto adesso del nostro individualismo, ossia il pensare per sé .
Cerchiamo di comprendere il peso e l’autentico significato del sommo motto evangelico: “Date a Cesare quel che è di Cesare, date a Dio quel che è di Dio“ Mc.12,17 Ma, per far ciò, per perseguire il nostro obiettivo, dobbiamo parlare d’identità all’interno della comunità . Ecco, poniamo una distinzione fra questi due termini: “società” e “comunità”.
..sulla comunità : uno sguardo oltre la crisi

La crisi non ci ha resi aridi, ma ha reso visibile l’aridità che c’era già. Il fattore umano sarà decisivo. Per tale ragione, la comunità a cui ci rifacciamo, come già accennato sopra, è quella delle origini del cristianesimo, e non solo: pensiamo a quello Spirito che legava fra loro la povera gente, gli oppressi. Essi trovavano forza incoraggiandosi a vicenda, dialogando fra loro, e avendo davvero a cuore i bisogni di chi gli stava attorno. Il senso della comunità è come una famiglia allargata, che , pur mantenendo ognuna delle sue particolarità e differenze, le unifica, basandosi sulle esigenze comuni e sui diritti di ogni persona. Bisogna prendere ad esem-pio chi ha fatto della gratuità e del dono il proprio modus vivendi .
Teniamo conto che una “diversità” è tale solo fino a che noi anteponiamo il giudizio su di essa senza conoscerla: dopo averla accettata la riconosceremo come “simile” e molto vicina a noi. La nostra condizione è la nostra forza, la nostra possibilità d’interpretare, tramite l’esperienza, i nostri bisogni e di confrontarli fra noi. La nostra condizione ci mette in relazione con il Mondo. Parliamo in breve della tutela del prossimo: della disabilità, dei ceti meno agiati, di chi ha un orientamento (sessuale, religioso, culturale, politico ) differente dal nostro, di chi è più giovane e più anziano di noi, degli immigrati, delle etnie differenti, dei precari, dei disoccupati, dei senza tetto, dei tossico-dipendenti, ecc.. . Di tutti, non solo dei nostri “apparenti” simili. La comunità è quin-di, semplicemente, tolleranza, rispetto, e amore. Il nostro aiuto è la denuncia e l’intervento che possiamo dare a chi ne ha bisogno.
La società si è, invece, generata dall’alienazione dell’individuo, dal meccani-smo di delega, dalle alleanze partitiche. Si è creato un dualismo tra l’identità di gruppo e quella della persona, senza rendere plausibile altro che il reciproco tornaconto. Dalla prima rivoluzione industriale, dallo svuotarsi delle campagne, dal fenomeno di urbanizzazione, abbiamo assistito al cambiamento del ruolo della persona: essa ha un valore, dato dalla classe e dal ceto di appartenenza.
La persona è merce e forza lavoro, il resto non interessa e finisce sotto il termine di “sovrastruttura ideologica”. E’ dunque necessario abbattere sia la concezione del valore, sia l’utilitarismo, l’egoismo, per riproporre il senso civico di “ciò che è in comu-ne e di ciò che è possibile condividere”. Così da non dover più sentir parlare d’impegno sociale come una stranezza, una passione, ma di un comportamento naturale. Usciamo dal vincolo del soggettivismo, dal ridurre tutto il Mondo ad un’immagine che abbiamo stereotipata di esso. Perché la faccenda riguarda in primis noi e il nostro modo di rapportarci al Mondo : la nostra sfera, il nostro Io, è distaccato dal reale, dalla nostra realtà? Qual è l’interesse verso ciò che ci circonda ? Per quale motivo decidiamo di vivere piuttosto che morire ? Ingozzarsi d’informazioni senza poi con-vertire in pratica le ragioni del proprio dissenso è l’allarme più eclatante dell’inautenticità delle nostre posizioni. Ovviamente, qui non si distrugge tutto e non si celebra il fallimento di ogni iniziativa sociale, ma al momento sono realtà , purtroppo, di minoranza. La crisi economica richiede, dunque, una nostra partecipa-zione quanto mai attenta. Coloro che ri-sponderanno onestamente con loro stessi manifestano l’alienazione che questo sistema, questo pensiero debole, anestetizzante vuole propinarci. Esistono delle alternative però.
Prima di tutto, però, com’ è possibile essere e sentirsi liberi se siamo schiavi di noi stessi ? Siamo davvero in grado di gestire un’ipotetica libertà totale? Basti porre l’esempio della scuola considerata da molti come un carcere senza finestre, come un mattatoio.
Può un‟esperienza di servitù convertirsi in libertà con un pezzo di carta, col diploma ? Stesso discorso per la nostra tanto amata Università . Può una misera lotta al 30 e lode , al 110 , essere un motivo di orgoglio se la nostra capacità di critica e di confronto su ciò che ci riguarda sia nell’imminenza dello studio sia su ciò che concerne il nostro diritto al medesimo è pari a zero ?
E‟ concettualmente maturo infatti vivere ogni esperienza come un vincolo e non come una possibilità per esplicare noi stessi nel mondo ? Come se lo studente fosse un vaso da riempire: tale è stata la proposta educativa maggioritaria della scuola e dell’università moderna, ma tutto fa capo al disegno d’ impedire il ricambio generazionale della classe dirigente, favorendo la fuga dei giovani all’estero. In tal modo si rafforza la gerontocrazia, mentre la tanto celebrata generazione del futuro è rimasta nel futuro e non vive nel presente, non sta nella realtà ! Ci sarebbero da trarre ben poche eccezioni che, a ragion d’essere, sono diventate degne di elogio , di plauso, come le associazioni di beneficenza: un’umanità eroica però che è sempre più rarefatta. Quindi, la proposta educativa può e deve essere vagliata solo se vi è una critica attiva da parte delle nuove generazioni . Solo se vi è un dialogo costruttivo tra le varie generazioni che porti delle proposte in base all’esperienza virtuosa che ogni singola persona può proporre. Ma la capacità di critica non è nient’altro che un sinonimo di libertà. Gaber , ebbene, scriveva saggiamente che “la libertà è partecipazione”. Cosa ha voluto intendere con tale affermazione ? A cosa dovremmo partecipare per essere liberi ? Partecipare alla nostra vita, innanzitutto. Ponendo come obbligo morale la centralità e la dignità di ogni essere vivente. Tenendo conto che l’essere umano e la sua umanità sono dedotti dalla sua messa in relazione con gli altri : non solo con la sua specie, ma anche con gli animali e con le piante, con l’ambiente, con la Natura. L’accettazione della vita non come tragedia, ma come dramma. Traendo la nostra forza anche dalla sofferenza, dall’apatia, dalla perdita, dalla fine di un amore, dalla morte. La vita è la nostra possibilità per essere, per alzare la voce, per annichilire il nichilismo stesso, per esaudire il bisogno insostituibile di esser felici . La nostra salvezza è l’amore. Cosa supera difatti la barriera tra una società odierna, la nostra, dall’ambita comunità fraterna, se non proprio l’amore stesso verso la nostra vita, e quella altrui, insomma verso l’essenza fon-dante della politica: l’aggregazione libera per il diritto di ogni singolo elemento della comunità, al di là di ogni logica di partito. Ecco, bisogna prendersi cura delle vicende del prossimo, dei diritti di ogni persona, tutelando la democrazia tramite il rispetto e la tolleranza. Solo così il senso civico verrà ricostituito, tramite un atto di responsabilità. L’archetipo della comunità è dunque la libertà, che si esplica sotto forma di democrazia.
Ma la libertà avrà sostanza solo attraverso l’amore, tramite la condivisione di ciò che si ha di più caro. Occorre risvegliarci, trovare la nostra dimensione e voler modifi-care pragmaticamente la nostra realtà , partendo dai luoghi che oc-cupiamo ogni giorno, portando sul campo di battaglia ciò che apprendiamo, che studiamo, comprendendo che stare al mondo non è un optional e nemmeno un vezzo: è bensì un obbligo. Domandiamoci, seriamente, di chi e di cosa abbiamo bisogno e, forse, saremo tutti d’accordo su questo punto. Occorre non solo manifestare un dissenso, ma progettare pragmaticamente quindi un presente possibile insieme verso cui dirigersi e indirizzare ogni nostra energia. Il nostro obiettivo è di ristabilire un principio della morale, partendo dai fondamenti esistenziali della nostra Costituzione esistenziale per accedere alla Costituzione democratica. La libertà, che coincide con la re-sponsabilità, quindi si sperimenta al di là della vaga teoria, ma dalla partecipazione attenta a ciò che la vita ogni giorno ci sussurra, si urla , ci consiglia di fare. Aiutando le persone ad uscire dai loro ghetti. Come poter realizzare questo miracolo ? Siamo tutti in gioco e, noi de La Zanzara, vogliamo giocare !
“II Ribelle è il singolo, l’uomo concreto che agisce nel caso concreto. Per sapere che cosa sia giusto, non gli servono teorie, né leggi escogitate da qualche giurista di partito. Il Ribelle attinge alle fonti della moralità ancora non disperse nei canali delle istituzioni. Qui, purché in lui sopravviva qualche purezza, tutto diventa semplice.” (Ernst Jünger, Trattato del Ribelle, 1952).

Natale Anastasi

La Felicità: una questione impronunciabile ai giorni nostri?


Vivere non è star all’uscio dell’esistenza,
Vivere è immensa gioia d’infinito,
Vivere è l’immergersi nella profondità del Tutto.
Vivere di felicità, sempre.

La bellezza salverà il Mondo



La felicità rappresenta il massimo raggiungimento per chi voglia davvero sentirsi vivo. Essa tira in ballo tutta la nostra esistenza e ci indica sempre una via che richiede il massimo sforzo, la massima esposizione e “pro-tensione” ai bisogni del nostro Io, del nostro cuore. Che cos’è la Felicità, che cosa comporta essere felice? Sarà capitato a tutti di porsi tale domanda e molti, non trovandone la risposta, l’avranno man mano accantonata, posta sempre più di rado, fino al punto di dimenticarsi della propria esigenza. Quella che teniamo nei meandri più cupi della nostra mente, quella che pen-siamo di poter “staccare” dal nostro cuore. Dimenticarsi del proprio bisogno di felicità è però al tempo stesso dimenticarsi della propria stessa esistenza. Come si può infatti vivere con così tanta ignavia la propria vita, sostenere che la “felicità non esiste”, e che “vivere e sopravvivere siano nient’altro che sinonimi”? Non è possibile ragionare in questi termini. Questa società non può e non deve annichilire il nostro bisogno esistenziale di dire : “Io ci sono, qui ed ora, e voglio vivere”. Siamo però nell’età della tecnica e si reputa che, dall’asservimento alle nuove macchine, ai nuovi dispositivi sempre più perfettibili, si possa fondare una nuova ermeneutica dell’Uomo: dare cioè un nuovo volto alle nostre azioni e alla nostra esistenza.
Vengono dunque proposte raffiche di soluzioni: si intende l’uomo come un aggregato di molecole da rinnovarecome macchina bionica; gli si propongono ad esempio le seguenti: la chirurgia estetica, la manipolazione genetica, i social network. Queste però saranno sicuramente vie “più semplici”, ma di gran lunga inefficaci,  perché troppo “esteriori”, superficiali, per esigenze che in realtà riguardano tutto tranne che la sola nostra “matericità”. Le macchine non registrano i sentimenti. Può dunque una macchina, una protesi, farci stare davvero bene, renderci davvero Felici? Siamo dei pc in attesa del nuovo e più sicuro antivirus?

 E cosa sarebbe l‟antivirus, la ricetta contro l’esposizione alla Realtà? Vogliamo davvero essere così impermeabili, asettici al Mondo che ci circonda? Le esigenze del cuore, dell’anima, non potranno stare sopite a lungo, né sedate, perché provengono da Altro. Perché ciò che ci distingue dal nulla e dalle cose morte è proprio la nostra capacità di provare emozioni che, belle o brutte che siano, ci contraddistinguono come persone pensanti. Perché privarcene? Il rifiuto delle proprie esigenze, del proprio Destino, è l’ecatombe della fine. Tendiamo infatti a preferire il piacere momentaneo, quello che non implica un nostro totale coinvolgimento in ciò che facciamo, proprio perché si teme sempre che il nostro Io diventi il buco nero che ci inghiotta, ex abrupto. Non si comprende però che già tutto questo è avvenuto: sin dal momento in cui rifiutiamo di considerare la Vita come un dono, per farla scadere nel nulla, nella noia profonda. Non ci è richiesto pensare, fa male, ed è contro gli standard! E’ un passo agghiacciante per una società che ha estromesso la nostra Vita. Da cosa dipende, quindi, essere in vita? Non desta alcun disagio il non porsi alcuna differenza? Possono i nostri pensieri, la nostra fame, svanire solo al nostro comando?

Ovviamente no. Il piacere, per quanto lo si possa considerare più o meno interessante, è pur sempre effimero, fittizio, ci distrugge interiormente e poi fisicamente (alcool, droga, sport estremi). E non possiamo credere di curare un tumore con una semplice aspirina. Le nostre esigenze richiedono di trovare delle risposte, per-ché ci è dato di riceverle. Perché ci è dato di poter essere felici. Ma la soluzione non è l’escludersi dal Mondo, dalla realtà che ci circonda, perché da soli non possiamo “procurarci” la Felicità. La realtà infatti non è davvero nostra nemica, non è ciò di cui avere timore e terrore, non è una tragedia. E’ solo la Realtà, è magistra vitae. Uno sguardo semplice rende chiaro come siamo noi stessi a rendere orribile il mondo, a spregiare la vita, a disprezzare la casa in cui viviamo. Siamo talmente liberi che pensiamo di essere condannati ad esserlo, che crediamo di esser condannati a vivere, che distruggiamo la Natura, che facciamo guerre, e poi addossiamo le colpe a Dio? Ma chi ci costringe? Nessuno. Bisogna quindi guardare oltre: fino alle porte del proprio cuore. Esso è infatti la chiave di volta che ci permette di comprendere come siamo davvero interiormente, che ci identifica, e ci indica la retta via da seguire, che costituisce la nostra legge morale. C’è da chiedersi: cos’è quindi la Felicità, nel senso più alto del termine? Cosa c’entra con noi stessi?

Cosa o per meglio dire chi smuove l’uomo? Perché ci poniamo la domanda sulla Felicità, è un concetto che abbiamo appreso e che abbiamo ricevuto da qualcuno? Che ce l’abbiano insegnata? Semmai alcuni ci hanno insegnato – a modo loro – che è impossibile essere felici a questo Mondo: un’assurdità senza eguali! E inoltre: com’è possibile che tutti sappiano interiormente cosa sia la Felicità, cosa sia il senso della vita, e nessuno abbia il coraggio di parlarne (considerando coloro che ne parlano degli stolti arroganti) ? Siamo quindi noi esseri reali a costruire attorno a noi delle sbarre, una gabbia da cui non usciremo mai più. In questa società in cui tutti pensano di essere onnipotenti e onniscienti, siamo davvero così liberi di “essere”? Sta di fatto che la libertà e la felicità non sono due realtà distaccate, e nemmeno affini, sono una il completamento dell’altra. Sono parte della stessa unità. Facciamo adesso una piccola analisi: gli epicurei sostenevano che il massimo raggiungimento per l’uomo non sia la Felicità, bensì il piacere, la serenità, data dalla mancanza di dolore fisico (aponia) e di turbamento mentale (atarassia).

Purtroppo però secondo tale ipotesi non descriviamo cosa sia davvero il piacere, e nemmeno le condizioni di serenità secondo cui poter vivere. D’altro canto molti reputano che dal soddisfacimento dei bisogni primari e dei propri desideri più nascosti e generici (fama, ricchezza, potere, sesso) derivi la felicità. Siamo inoltre esseri in divenire: le nostre esigenze e desideri più legati al momento possono mutare con lo scorrere del tempo e, in alcuni casi, col maturare della nostra personalità. Questa condizione – che molti non rag-giungeranno mai a prescindere – quindi è già di per sé utopica, e anche se fosse raggiunta non arrecherebbe forse altro che uno stato finale di noia profonda e di mancanza di meraviglia in ciò che si ha?

Esiste una verità elementare, l’ignoranza della quale uccide un numero infinito di idee e di splendidi piani: è che nel momento in cui uno prende un impegno con se stesso, è allora che la Provvidenza si muove [...]
Qualunque sia la cosa che puoi fare o che sogni di fare, comincia. Il coraggio porta con sé il genio, la forza e la magia. Comincia subito”
( J.W. Goethe )
Quindi si indica ciò che realmente non è, non ciò che è. E da una tale mancanza si può dunque creare una premessa? La risposta è ovvia: il benessere, la felicità si costruisce partendo da sé, da un incontro, da una corrispondenza, stando nella Realtà. L’interrogativo dunque è molteplice: come si può costituire un proprio vissuto ignorando proprio se stessi? E questa fondamentale prerogativa per l’essere umano? Così facendo non si ignora infatti la Realtà, definendola illusoria, un mondo a parte che non ha nulla a che fare con noi? Ognuno reputa di potersi creare la propria realtà, di poter soddisfare da solo qualsiasi bisogno. Siamo nel regno dell’assurdo! La Felicità però è un affare che non ci deve sfuggire, perché ci rappresenta al massimo grado. 

C’è in gioco l‟irripetibilità del nostro presente, del nostro futuro. E per non viver di rimpianti, bisogna vivere prendendo consapevolezza di chi siamo, e di ciò che ci sottende, di ciò che ci lega, che ci dà animo. Non bisogna però credere di poter “dare” a nostro piacimento un senso alla nostra vita, per comodo, perché non siamo noi a dare un senso alla Vita (a ritrovarlo casomai), sennò implicheremmo che la vita di per sé non avrebbe alcuno, e questa sarebbe solo una scelta dettata dall’utilitarismo, dal tornaconto. Ebbene noi non diamo senso proprio a nulla: semmai è il Senso che dà ragione alla nostra possibilità di darne uno. La vita ci richiama al senso che è in noi, ma che non è però direttamente noi stessi ! Scavate nelle vostre anime e vedrete quanta bellezza vi riserba il vostro cuore! D’altronde come sarebbe possibile “scovare” un senso in qualcosa che ci è estraneo se in noi stessi non vi fosse già la definizione del senso stesso? Allora è proprio vero: il simile conosce il simile e la realtà unifica le esperienze. Una cosa sarà bella non a caso, ma perché ci corrisponde. 

Proveremo davvero amore verso qualcuno non fortuitamente, ma perché risponde alle esigenze del nostro cuore. Perché risponde e s‟intona alle vibrazioni e ai colori della nostra anima: ciò è da porsi a fondamento dell’armonia. L’idea stessa di Dio non quindi un concetto che è possibile creare a nostro piacimento, ma consiste nella risposta alla domanda ultima , la massima espressione della nostra essenzialità, il collegamento supremo che vi è tra la nostra anima, il corpo e la Realtà che ci circonda come testimonianza d’Infinito. Ecco dove la tecnica, il materialismo basso e gretto, non possono e non potranno mai arrivare. Il fondamento della nostra Felicità sta dunque nell’Amore, nell’amar se stessi, il proprio destino, e gli altri non esclusivamente per i pregi, o per le qualità di noi stessi o degli altri che ci possono tornar sempre comode, ma per la totalità della nostra e della loro essenza. 

Amare quindi sia i pregi, ma soprattutto i difetti, e saper dare il giusto peso ad entrambi. Amare quindi resta l‟atto supremo per l’essere umano, e chi riuscirà ad amare tutti indifferentemente e gratuitamente, che siano familiari, parenti, amici, fidanzate/i, conoscenti e sconosciuti, avrà compreso la propria esistenza. L’Amore quindi, per esser ritenuto davvero tale, lo sarà quando diverrà accettazione plenaria del proprio sé come microcosmo, e dell’Alterità tutta, riconoscendo e ritrovando il proprio posto nel cosmo degli infiniti astri dell’universo. Proprio come recita l’ultimo verso del Paradiso di Dante (XXXIII, 145) “l’amor che move il sole e l’altre stelle” sarà il tramite per un atto di Bellezza, la somma guida per la via che porta alla Felicità.

” Chi cerca Dio è come un bambino che non sa se c’è del pane da qualche parte, ma che grida di avere fame. Il pericolo consiste non nel fatto che l’anima dubiti se c’è del pane o no, ma il pericolo sta nel fatto che si persuada con una menzogna di non avere fame. Può persuadersene solamente con una menzogna, perché la realtà della sua fame non è una credenza, ma una cer-tezza. Può dubitare di Dio, ma non del fatto che lui abbia fame di Dio”. Simone Weil 

Natale Anastasi