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mercoledì 21 novembre 2012

Eolo, dio dei venti

“Tali pensieri volgendo nell'animo acceso la Dea pervenne alla patria dei nembi: 
alle isole Eolie, terre che scuote dei venti Australi il furore. 
Eolo vi regna: in vasto andro domina l'impeto di tempeste sonore e i venti chiude e incatena. Essi con murmure grande fremono irati d'intorno alle chiuse pareti del monte.
Eolo su alta roccia siede tenendo lo scettro e allenta l'urto dell'ira“
Eneide (Libro I) - Virgilio

 Eolo! Venti, spiriti dei morti!
Il mito racconta che i più famosi popoli ellenici discesero da Elleno (stabilitosi in Tessaglia) che sposando Orside generò Eolo, Doro e Suto. Quest’ultimo generò con Creusa, Ione e Acheo. Da qui discesero i popoli ellenici più famosi: Dori, Ioni, Achei ed Eoli.
Eolo, dio dei venti non fu l’Eolo originario, figlio di Elleno, ma suo nipote. Per semplificare il tutto ho creato l’albero genealogico.

Eolo (chiamato così per la somiglianza del nonno), figlio di Posidone e Melanippa, che assieme al gemello Beoto furono esposti sul monte Perlio per ordine di Desmonte (padre adottivo di Melanippa) per farli divorare dalle belve; i due pargoli furono salvati da un mandriano. Nell’Icaria intanto, il re Metaponto lamentava della sterilità della moglie Teano. Quest’ultima invocò l’aiuto del mandriano che avevo salvato i due gemelli facendo credere al marito di essere suoi. Ma Teano non fu sterile e partorì anche lei due gemelli, ma di gran lunga più brutti dei due gemelli divini. Teano allora ingelosita, ordinò ai figli naturali di uccidere i fratellastri durante la caccia, simulando un incidente. Ma Eolo e Beoto furono aiutati dal vero padre Posidone uccidendo i gemelli di Teano; quest’ultima si trafisse con un coltello il petto.
Eolo salpò con alcuni compagni nelle sette isole del Mar Tirreno conquistandole, che presero il nome da lui, Isole Eolie. Zeus aveva imprigionato i venti, gli "spiriti dei morti", nell’isola Lipari (la maggiore delle Eolie) perché temeva che se fossero rimasti incontrollati avrebbero potuto spazzare terra e mare. Inizialmente fu Era (moglie di Zeus) a controllarli, ma incaricò Eolo di custodirli. A Lipari costruì la sua dimora, un palazzo ornato da mura di bronzo, vivendo con la moglie Enarete e i suoi dodici figli; costrinse alcuni di questi ad emigrare per aver commesso atti incestuosi, considerata una prerogativa solamente divina.
Il potere di Eolo consisteva nel liberare i venti, secondo il proprio giudizio o quello di un nume. Se voleva scatenare una tempesta, apriva con la sua punta della lancia un varco nella scogliera dell’isola, facendo precipitare i venti all’aperto. Quando arrivò il momento di morire, per la sua straordinaria capacità di poterli dominare, Zeus lo risparmiò dal Tartaro (regno dei defunti) permettendogli di partecipare al banchetto degli Dei.

Francesco Conti

martedì 20 novembre 2012

La pioggia di settembre




Che dire al passante incimurrito
avvolto nel suo cappotto opaco
fra pensieri misteriosi sconosciuto
al mondo ed a se stesso e con in cuore
il fascino peccaminoso del silenzio?
Che dire al vecchio incrinato
sulla panchina solo a raccontarsi
addosso la stessa malinconia
con fra le mani gli stracci casuali
della vita e preghiere consunte
da regalare al prossimo compleanno?
Che dire ad un uomo bambino
prigioniero della sua auto immobile
nel traffico di luci cangianti
della notte, in bocca tra i denti
il dolore mai saputo d’un passato
sfibrato nei richiami della memoria?
Che dire al ragazzo arruffato
che nasconde il suo volto bagnato
dal pianto, nell’incavo del braccio,
masticando stento il suo amore
perduto nella pioggia di settembre?
Che dire alla fanciulla fuggitiva
tra le linee confuse del tramonto
che racchiude fra i piccoli seni docile
il significato profondo dell’intenso
suo sguardo ingenuo e del sesso
e del corporeo illudersi vivendo?
Che dire alla donna pensierosa
per la strada umida, contro la notte,
che umiliata e sconfitta da un uomo
troppo debole per essere se stesso,
ma mai vinta, mai caduta, libera,
ha vissuto sospesa sul limite concesso?
Che dire alla povera zingara curva
che all’alba va fra la gente del mondo,
con occhiaie scolpite nel viso ingrigito
e smunto, parole d’amore troppo sincere
per essere pronunciate ad alta voce
e nel petto scheletrico il senso
ultimo del suo andare: il vuoto?
Che dire a quel viandante cieco
che adesso conduce amaramente
le sue quattr’ossa a un argine
concreto di discrepanze inutili;
nel suo respiro l’inquieto sentire
della propria inconsistenza e un’eco
sperduta tra le increspature
d’un buio abisso che ci stringe?
Mi resta soltanto la parola muta
che saprà raccontare un giorno
questa nostra infelicità,
la parola antieloquente testimone
della nostra insincerità.

Giulio Foderà
4/3/2012

L’ora del congedo



Oggi ho sentito il tuo seno ballerino
sfiorare il mio petto nell’ora del congedo
ed è stato come sentire un’anima gridare.
Sono giorni pieni per un cuore contadino,
che empiono i silenzi tanti, fra i solchi vuoti;
povero cantante, rapsodo, romito aedo,
che frughi fra le tue coste da canarino
un non so che di vita che scompare.
Il sale delle mie lacrime non ha mai saziato,
fidati: un pensiero che non chiedo
e che fra i ricordi asciutti resta ad aspettare,
forse saprà saziarmi, o solo un languorino
da pescatore farà passare. Inabitato
prosatore di versi matti, ricordami chi sono,
io intanto aspetterò altre labbra da baciare
e sorrisi da salutare nell’ora del congedo.

Giulio Foderà
13/3/2012

Piedi



 
Giugno 2011, Barcellona, Spagna.
‘Sta mattina mi trovavo alla Fundació Antoni Tàpies, in carrer d’Aragó 255. Una mattina d’estate come tante. Faceva caldo, ma ancora il fresco della notte prima non si era dileguato del tutto nelle scorribande mattutine d’auto e gente per le strade. C’era ancora quella dolce serenità vergine, non ancora violentata dal moto inconsapevole dei turisti o di qualche falso avventuriero.
Due passanti parlottavano in catalano: un vecchio con un barboncino bianco che correva dappertutto abbaiando, di tanto in tanto, al ronzare quieto d’una mosca e un uomo di mezza età con in mano una busta per la spesa.
C’era nell’aria, qualcosa di energico, di vitale. Voglio dire quel senso di tremore che invade il corpo quando fa un po’ fresco e quel brivido corre lungo la schiena. Avevo addosso proprio quel brio, quella sensazione stimolante e appagante. Adesso sembra strano, raccontato così su due piedi, o meglio su di uno solo, visto che sono in bilico su questo binario, ma provate a chiudere gli occhi per un istante, pensate a un prato verde, vasto, in cui ascoltare il suono della natura, e immaginatevi in mezzo a questo prato, scalzi, con nella testa solo la sensazione di leggerezza delle prime ore del mattino, e tutto intorno un frusciare sottile di fronde al vento, uno sfrigolare d’acque chiare da una cascatella o da una piccola fontana. Ecco, forse ho reso l’idea.
Avevo appena superato Casa Batlló, sinuosa, e svoltato l’angolo a sinistra per la carrer d’Aragó. Già da lontano avevo notato il nido d’acciaio dell’antica sede della casa editrice Montaner i Simon che accoglie, tra quelle mura rosso mattone, le opere pittoriche di Tàpies. Entrai.
Tutto lì sembrava a portata di mano, vicino, e inconsciamente fui costretto a pagare il mio biglietto, richiedere la guida audio e sentire in me le prime opere. Salutai la ragazza che stava al di là del bancone, col mio rozzo accento, in castigliano. Aveva due occhi neri da mettere in soggezione, ma appena scesi poco più
in basso con lo sguardo, le labbra tremule e il sorriso caldo mi lasciarono dentro quella rara pace che invano per anni ho cercato.
Si chiamava Paula e sapeva un po’ di tedesco. Mi raccontò qualcosa sulla sua vita, quel che si racconta a uno sconosciuto per presentarsi, il giorno stesso, in un bar del centro. Aveva ventisei anni e si era laureata in lingue straniere. Aveva trovato lavoro nel museo da due mesi. Non si lamentava. Nel parlarle capii quanta vita sconosciamo degli altri, quanto poco sappiamo delle persone che ci stanno intorno come di quelle lontane. E questo mi fece pensare a quanto poco so di me stesso, della mia vita, per essere arrivato fin qui e non essermi ancora accorto di un universo infinito che ruota vorticosamente ma soavemente, come l’andare d’una culla. Ed io, fermo, immobile, ho creduto di essere il baricentro di questo andare.
Presi le mie cuffiette con l’audio guida e mi addentrai nel museo.
<< Materia en forma de peu (materia in forma di piede, 1965), tecnica mista su tela. Tàpies respinge qualsiasi canone di bellezza ideale e tenta di rompere i suoi postulati di base scegliendo di proposito soggetti considerati tradizionalmente sgradevoli e feticisti: un ano che defeca, una scarpa abbandonata, un piede, e altri. L’immagine del piede è particolarmente rappresentativa in quanto Tàpies l’ha utilizzata già prima delle pitture materiche e ha continuato a utilizzarla fino al giorno d’oggi in forme diverse, dalla rappresentazione iconica di un solo piede fino alla raffigurazione dell’impronta dello stesso. Per lui, il piede è una cosa umile e passiva, legata più alla materialità della terra rispetto alla spiritualità del pensiero. Il piede in Materia en forma de peu (materia in forma di piede, 1965) non rappresenta una superficie tersa e attraente, ma piuttosto qualcosa di sporco e tumefatto, a quanto pare coperto da calli e cicatrici. E non sembra più essere “utile” e quindi si oppone a qualsiasi ideologia della produzione. Tàpies ha ribadito che la sua motivazione consiste in una rivalutazione di questi oggetti socialmente condannati al disuso. Il suo messaggio si basa sulla rivalutazione delle cose umili, di ciò che è ripugnante e materiale. La materia è l’elemento sostanziale della vita, per questo motivo la missione di intellettuali e artisti è quello di dare espressione a una prospettiva materialistica del mondo. >>
Di fronte a me si stagliava penetrante la tela. Sulla tela, impressa con forza, la sostanza densa e grave disegnava la forma di un piede che, enorme, occupava tutto lo spazio. Un piede interamente ricoperto di graffi, tagli, calli, cicatrici, forse ferite di battaglia. Pezzo di carne, un tempo viva, reso rifiuto, scarto, oggetto usato e gettato via, sudicio, infernale. La base ben piantata sul suolo duro, in uno spazio senza fine. Pressione agghiacciante. Forza. Morte.
Fu un’estasi. Non capii, in un primo momento, fino in fondo le parole della guida che pulsavano placide e nette, senza sentimento, dalla voce registrata e meccanicamente riprodotta d’un uomo sconosciuto che parlava la mia lingua, il tedesco.
Fui comunque rapito. Ero io quell’uomo che parlava, quel pittore, quella tela glaciale, quel piede. Sì, ero l’immagine stravolta impressa su quello sfondo grigio. Non era un quadro ma uno specchio. Ed ero senza senso, insignificante, solo, inutile oggetto gettato, immondizia, rottame, abbandonato, anche io. E lo sono ancora. E mi chiesi se magari avrei potuto riconoscermi anche in altre forme confuse che percorrono il mondo nella loro immobilità. Altre facce sconfitte che non chiedono altro che essere sepolte vive, dimenticate, distrutte.
Prima d’oggi, nel mio tempo inutilizzabile, restavo fermo e passivo in cerca di moto, con dentro la pulsazione folle del divenire. Questa mattina scoprii una vita diversa dal rincorrermi e poi fuggire nella stasi. E mi accettai uomo, materia inerte nel cosmo. Caducità cosciente.
Forse stava lì la chiave delle mie inquietudini, la soluzione al male di vivere che attanaglia i miei giorni, come di chiunque altro. Forse in quelle parole, in quella immagine, c’erano una vita e una bellezza autentiche, una verità incancellabile. Forse la mia via di fuga stava negli occhi neri di Paula rincontrati poche ore dopo.
Adesso è troppo tardi per chiedermi certe cose. Ormai ho scelto per me quel che era giusto scegliere. E sono qui, in equilibrio su questo binario, su di un piede solo, attraverso cui passa l’universo. Pianta sul ferro freddo, un passo dopo l’altro, come un funambolo, verso l’ignoto buio ancestrale della terra.
Dopo qualche minuto mi tolsi le scarpe e le lasciai di fronte al quadro. Indecenti involucri posticci nate per celare la sostanza più pura dell’uomo, per eludere il contatto sublime con la terra, con la vita. E uscii dal museo senza una parola in bocca da spendere, senza più nulla da rimpiangere o da seguire, per cui illudersi e soffrire.
Paula mi seguì come un segugio affettuoso, nonostante ancora non sapesse nulla di me. Trovò le mie scarpe, me le volle restituire. Non aveva capito nulla. Eppure aveva vissuto giorno dopo giorno in quello stesso luogo tanto rivelatore per me. Aveva guardato tutte le opere, letto i cataloghi, ascoltato le guide, conosciuto un giorno, per caso, Tàpies. Non aveva colto, però, l’insegnamento, il senso ultimo del nostro andare e venire, di questo procedere tentoni e senza meta per il mondo.
Ma in fondo anche io avevo vissuto immerso in questa natura multiforme e sincera ed ho perduto il suo messaggio profondo dissimulandolo ora in questo ora in quest’altro fantoccio: politica, economia, scienza, religione, arte. Fantocci immondi dietro cui si nasconde la vera essenza.
Al bar le spiegai le mie ragioni. Lei allora capì. Le si illuminarono gli occhi, le si accese un fuoco dentro. Era di fronte a me, al tavolo della caffetteria d’una traversa della Rambla. Si mosse piano in basso. Con una mano sciolse i laccetti dei suoi sandali e li sfilò dolcemente. Poi mi fece uno sguardo provocante. I suoi occhi brillarono più della luce viva di una fiamma. Con un piede mi sfiorò la caviglia, poi su fino al ginocchio e dopo nell’interno coscia, con una calma seducente, eccitante, micidiale. Ansimai, chiusi gli occhi, allargai le gambe e mi lasciai sedurre. Quando sentì che non riuscivo a trattenere più le mie pulsioni, si fermò, si alzò e corse verso il bagno, ancora scalza. Sorridendo appena, mi invitò a seguirla. E la seguii come se fosse stata l’unica cosa plausibile da fare. Appena fui dentro con lei, chiuse la porta a chiave e mi spogliò. Poi si voltò e si lasciò svestire. Portava un vestito leggero chiaro che seguiva le sue forme gentili ma generose, non portava la biancheria intima.
Allora le sfiorai i fianchi e la girai verso di me. Lei alzò la gamba destra e con il piede roseo e morbido mi carezzò la gamba e il gluteo. Si sollevò sulla punta del piede sinistro, io le strinsi il fondo schiena e la portai sul mio sesso. Quando fui dentro di lei, mi sussurrò all’orecchio con voce tremante e incerta “Uccidimi”. Venni dentro di lei.
Fu l’unica cosa giusta da fare, l’unica possibile.
Adesso sono qui su questo binario di metropolitana, freddo metallo sotto il mio piede nudo, linea 3, Zona Universitaria. Adesso sono qui in equilibrio sul mio piede nudo, passo dopo passo, con le braccia tese e in una mano un sacchetto di plastica sporco di sangue. Il caldo è insopportabile, l’umidità tremenda, il buio totale. Nel sacchetto il piede destro di Paula, mozzato, sanguinante, pallido, bellissimo. Alle mie spalle il treno velocissimo che grida.

Giulio Foderà

Che il lettore immagini il resto! Intertestualità e libertà


“Non ho perorato in favore di una teoria tra le altre, né del senso comune, ma della critica di tutte le teorie, ivi compresa quella del senso comune. La perplessità è l’unica morale letteraria.”
(Antoine Compagnon, Il demone della teoria – Letteratura e senso comune,Einaudi, 2000, p.285)

I – Introduzione: la lavagna intertestuale
“Dio è morto” andava bisbigliando alle vecchie del coro d’una parrocchia di Rocken un tale con dei baffi da brigante. “L’autore è morto” scriveva Roland Barthes, facendo il verso a quel tale, in un articolo provocatorio del ’68. Io aggiungo “il testo è morto” ed ancora “il lettore è morto.” Quanti cadaveri in questa pazza epoca!
Ma andiamo con ordine. Si parlava di Letteratura e lo Strutturalismo, in cui Barthes sguazzava, aveva decretato la fine di ogni studio relativo alla vita, alla morte ed ai miracoli degli autori (presunti tali) delle varie opere che gli editori ci propinano in libreria. Bisogna esaminare le carte, secondo loro, e solo quelle. Il resto sono raccontini vani che piacciono tanto ai fantasiosi storici ed ai marxisti sociopatici.
Il testo è quel che conta, le sue pagine consunte, le sue parole profonde, le sue lettere sbiadite. E chi se ne frega delle intenzioni dell’autore, del suo orizzonte d’attesa o del suo panorama d’azione? Domandarsi che cosa avessero in testa i Manzoni o i Leopardi quando scrissero ciò che scrissero è assurdo tanto quanto voler trovare nelle loro particolareggiate biografie i cardini fondamentali delle loro poetiche.
Negli scartafacci non c’è nulla che possa servire, né tanto meno nelle belle copertine rilegate, l’interessante sta nell’ovvio: nelle parole giuste delle stampe.
Allora presero a sezionare, a tagliare, a macellare le opere di autori e autrici spinti giù dalla torre. E scoprirono cose nuovissime e bellissime, e scrissero fiumi di inchiostro su tali scoperte, finché anche loro vennero gettati dalla torre. Ed anche lo Strutturalismo è morto.
Poi qualche fanatico come Stanley Fish disse che non ci fosse nessun testo nella sua classe,  che tutte le sue interpretazioni siano valide e che siccome dicendo tutto non si dice niente, anche le care paroline scritte sulla carta, tanto amate dai Barthes, sono state sterminate dal relativismo ermeneutico, se mai parola tanto stravagante e buffa abbia calcato il palco da protagonista.
E arriviamo ai giorni nostri in cui anche il lettore, unico faro di speranza in questo oceano nero in tempesta, sembra fiaccato e malaticcio. Decide davvero qualcosa in Letteratura, il suo ruolo qual è?, influenza o è influenzato?, scrive o legge?, riscrive?, vive?
Ma lasciate che vi dica una cosa: non è mai troppo tardi per prendere coraggio e dare un bel colpo di spugna su questa lavagna che è la Letteratura, qualunque cosa essa sia.
Si insinuano, sovente, invece, nella mia mente dei dubbi incessanti che mi arrovellano e non mi fanno dormire la notte. Ed adesso ve li ficco su nelle vostre care e smaliziate coscienze, cosicché anche voi, miei dolci amici, dormirete male. Sapete come si dice, mal comune mezzo gaudio.
Ma andrò per grandi. Fin ora abbiamo visto come tutti, chi più chi meno, hanno voluto dir la propria, hanno voluto scarabocchiare qualcosa sulla lavagna. E di certo non io che so poco o niente, mi arrogherò il diritto di prendere in mano la spugna. Impiastriccerò anche io quella bella ardesia nera, tanto cara alle maestre e tanto odiata dagli alunni un po’ svogliati, sperando che il mio umile e goffo contributo sia la goccia che faccia traboccare il vaso, ed un giorno qualcuno cancelli tutto per davvero.
È chiaro ed evidente che storici, marxisti, psicanalisti, modernisti, strutturalisti, post-modernisti, post-strutturalisti, costruzionisti e decostruzionisti, freudiani e post-freudiani, formalisti e nichilisti, critici e criticisti, futuristi e marinettisti, cattolici e musulmani, pizzicagnoli e portinai, abbiano, con tutte lo loro belle parole, raccontato un loro personalissimo giudizio sul mondo della letteratura. L’errore sta nel fatto che ognuno accampa diritti e pretende verità che non possiede. Sono tutti bei punti di vista che non si escludono a vicenda, ma presi a soli, come scienza esatta, limitano e vincolano il panorama. E questo è ciò che non vogliamo.
Voglio sapere del tempo in cui visse Petrarca, della politica di allora e della cultura materiale. Sapere il suo DNA, la sua storia, la vita vissuta appresso ad una ragazza e se quella ragazza fosse vera o no. Sapere quante volte il “Canzoniere” sia stato redatto e quante volte pubblicato, quali le sue revisioni e chi le abbia fatte. Sapere il manoscritto dove sia stato e, se ancora esista, dove stia, chi lo abbia vergato e chi lo abbia fatto, in quante mani sia passato e se sia stato tradotto. Sapere come fosse la calligrafia del poeta e la sua vita privata. Sapere tutte le parole scritte, il loro significato antico e quello moderno, le fonti da cui l’autore abbia attinto e i suoi maestri, il suo successo e le letture che altri abbiano fatto di lui. Sapere le influenze e le riscritture nel passato come nel presente. Sapere la mia prima lettura e poi la seconda e così via fino alla scomparsa di Francesco, fatto ombra e fantasma fra le carte, e l’epifania di me stesso. Sapere poi la mia morte in quelle parole, ed il divenire anch’io ombra.
E suvvia, chi mai può pretendere di ammazzare poeti, romanzieri e cantastorie, bruciare libri e rastrellare verbi! Queste sono tutte provocazioni ottime che tendono la mano a chi vuol dire altro spingendosi più a fondo nella questione.
Dunque ben vengano i Marx, i Nietzsche, i Barthes, i Fish o chi volete voi, a sommuovere il torbido che sta nel fondo, ad instillarci il germe del dubbio, a sovvertire il mondo. A noi resta l’atroce compito di farci nostre idee e ricostruire il cielo infranto.
Che ci siano pensieri divergenti a iosa questo è fuor di dubbio, ora bisogna che ognuno si scelga quello che preferisce o ne faccia uno ex-novo, che poi dal nulla non si crea proprio nulla. (Piacerebbe tanto ai sofisticati filosofi neoteroi che si cacciano in ogni trasmissione a far sproloqui lungimiranti quanto i loro nasi. Mi spiace per loro, nulla erano e nulla restano).
Ma torniamo a noi. S’è visto che ognuno ha la sua idea, il suo santissimo punto di vista. Ma allora la verità dove sta? Sta nel mezzo, come diceva mio nonno e il caro amico suo Orazio? O non ce n’è una affatto?

II – Consapevolezza autoriale
Beh, fin qui, tutte belle parole, ma non si quaglia. Ogni punto di vista è tanto vero quanto falso. Non ce n’è uno sbagliato e uno giusto. E non sarò certo io a criticare questo o quel principio. Ho largamente dimostrato quanto sia inutile lottare per una bandiera, ma che ogni giudizio è ben accetto e valido se tiene le manine dei suoi compagni.
Il fatto è che non si parla abbastanza (o se ne discute in senso lato) di due concetti che a me stanno a cuore e che, prima accennavo, fanno il mio sonno tanto leggero. Parlo dalla parte dell’autore di qualsivoglia opera, per restringere il campo, letteraria. E voglio paralare della Consapevolezza e della Responsabilità di quel tale.
Si disse che l’intenzione dell’autore fosse sacra ed io non voglio contraddire tutto ciò, come hanno fatto in tanti. Poniamo il caso l’autore in questione sia vivo e vegeto e ci racconti passo passo le sue intenzioni, i suoi obbiettivi, il pubblico a cui si rivolge e cosa vuole cambiare del mondo, se vuol cambiar qualcosa, eccetera. Mettiamo pure che, dopo aver scritto la sua bella opera, abbia pubblicato un libraccione corposo in cui spiega per filo e per segno tutte le varie significazioni, tutti i vari sensi ed i corrispettivi segni presenti nella sua opera. Insomma ci spiega tutto. Noi non ringraziamo, perché così facendo ha ammazzato la sua stessa opera come fanno gli strutturalisti, ma sappiamo tutto, dico tutto quel che c’è da sapere.
Ma l’autore è autore per poco, giusto il tempo di inventare, scrivere, sistemare e mandare alle stampe la sua opera. Poi, per tutto il resto della sua vita, sarà un lettore. Come tanti, come tutti, come noi. Così si scoprirà a rileggersi, a rileggere le sue opere, che è un po’ rileggere la propria vita, e a scovare cose nuovissime, altre e diverse significazioni, molteplici sensi che i corrispettivi segni, da lui stampati qualche tempo prima, hanno acquisito nello scorrere voluttuoso dei giorni.
E questo ce lo dimostra bene l’ingegnoso Borges quando riscrive con le stesse parole dell’hidalgo don Quijote e del suo scudiero Sancho.
E non è solo una differenza fra passato e presente. La lingua è viva, si muove, si contorce, muta, ma muta anche il lettore, la sua cultura materiale, le sue nozioni, le sue esperienze. Allora dove sta la Consapevolezza autoriale? Dobbiamo convenire che sia qualcosa che cambi, o dobbiamo riferirci all’autore come essere vissuto giusto il tempo di scrivere la sua opera e poi morto? Sicuramente è così, ma quel che conta è che la Consapevolezza autoriale riguarda solamente una piccolissima parte dei vari significati che l’opera può scaturire in ognuno. Soltanto la punta dell’iceberg è dominata dalla Consapevolezza dell’autore, sempre se questo vuole controllarla. Il resto è un infinito ghiacciolo sommerso che spetta al lettore svelare di volta in volta. Ma la sua è una fatica di Sisifo.
Del resto preferisco la letteratura che suggerisce e non racconta, che tace, a volte. E questo è un po’ il vizio di tutta la letteratura, anche di romanzi storici alla “Promessi Sposi” o alla “Ivanoe.” Perché scripta manent, e vabbé lo sapevamo già, ma quel che cambiano sono le parole nella testa di chi legge. E le lettere stampate su di un foglio sono delle finestre da cui traspare un mondo imprevedibile ed immenso. Ma poi la questione non è così manichea, il tutto è più sottile, più complesso. E lo sanno bene i lettori quanto cambino la loro vita i testi di autori-amanti, e quanto loro stessi cambino i testi in cui si immergono e di cui s’innamorano.
Faccio l’esempio di un’opera tanto amata dai critici contemporanei quanto odiata dai bimbi di questo tempo: “Alice’s Adventures in Wonderland” e “Through the Looking-Glass, and What Alice Found There” dell’iridescente Carrol. Nei due libri, ormai, poco del vecchio professore di matematica ottocentesco, un po’ dandy e stralunato, paroliere giocherellone, amante delle bambine intelligenti, poco o niente è rimasto, imbottiti come sono di letture filosofiche che vedono in Alice un Socrate in miniatura, di letture psicanalitiche che la trasformano in una bambina-fallo, di letture parodiche, sovversive, politiche, argute, complesse.
Tante cose belle si sono dette a proposito di Carrol e della sua Alice, ma quante di queste parole appartengono al diacono con la passione per la fotografia Dodgson. Nessuna!
Questo non comporta certo che siano da considerare pessime o irrispettose della memoria dell’autore. Assolutamente. Esse, anzi, sono importanti tanto quanto, se non più, dell’opera stessa, perché ne fanno parte e la completano. Perché, appunto, l’opera non sta nelle copertine rilegate, né nel cervello divenuto polvere di Dodgson, e neppure nelle singole idee meschine di ogni lettore che sbandieri per questa o quella fazione, ma nel contatto labile e libidinoso tra chi legge e ciò che è scritto. In quel contatto, istantaneo, formidabile, sublime, sta tutta la grandezza della letteratura. E se qualcuno mi dovesse chiedere cosa sia, appunto, la Letteratura direi quel contatto, imperscrutabile, dolcissimo, meraviglioso.
Che la letteratura debba evocare e stimolare il lettore lo sapevano bene anche l’ispanohablante Monterroso che scrisse il romanzo: “Cuando despertó, el dinosaurio todavía estaba allí” (“Quando si svegliò, il dinosauro era ancora lì”); ed Ernest Hemingway: For sale: baby shoes, never worn” (“Vendesi scarpette per bambini, mai usate”). I romanzi più brevi della storia, fin ora. Certo adesso qualcuno li avrà imitati in modo pedissequo, ma la loro idea era ben precisa: che il lettore immagini il resto!
Io faccio mia questa provocazione e la rimando con stizza ai vari saputelli perbenisti che tentano di scrivere per edificare il mondo. La loro morale vittoriana e deamicisiana non la sopporto, ma non gliela rispedisco indietro con tanti saluti, semplicemente sono i lettori, quelli attenti e curiosi, che la scardinano dal didentro. Ché anche nei dieci comandamenti ognuno può leggerci quel che vuole.
Quindi, dimostrato che l’autore non ha nessuna Consapevolezza di quel che scrive, se non di un microscopico quid limitato nel tempo e nello spazio, passerò a delineare i tratti di quell’altro concetto, per me tanto problematico: la Responsabilità autoriale.

III – Responsabilità autoriale
“Il linguaggio è una legislazione, e la lingua ne è il codice. Noi non scorgiamo il potere che è insito nella lingua, perché dimentichiamo che ogni lingua è una classificazione e che ogni classificazione è oppressiva. […] Parlare, e a maggior ragione discorrere, non è, come troppo spesso si ripete, comunicare: è sottomettere.”(Roland Barthes, Lezione inaugurale della cattedra di semiologia letteraria del Collège de France pronunciata il 7 gennaio 1977, Einaudi, Torino 1981, pp. 7-8)
Il vecchio Barthes, si sa, non aveva peli sulla lingua, e dopo aver fatto a pezzi l’autore, dichiarando che la sua morte sia stata una rivoluzione antiteologica, ripiegò sul lettore. Dopo averlo liberato dal dominio dell’autore, lo sottomise ad un’altra schiavitù: quella del linguaggio. Come già per l’americano Fredric Jameson in The Prison-House of Lenguage, anche per Rolando la lingua è una dittatura.
Si parte come al solito dal saggio Saussure, inventore della linguistica e della semiotica, che lasciava detto nel suo monumentale Corso di linguistica generale che il rapporto fra significato e significante fosse arbitrario. Arbitrario sì, ma non fuori dal mondo, come i seguaci del post-strutturalismo vorrebbero. La lingua segmenta, taglia, sceglie porzioni di realtà dal continuum spazio-temporale entro cui siamo prigionieri, da cui non si sfugge.
Dalle riletture di Barthes e Julia Kristeva del lungimirante Bakthin, che aveva visto nel romanzo le voci molteplici e cangianti della società, nasce il concetto tanto caro ai postmoderni di “intertestualità.”
Le nostre parole sono già state dette da altri, le nostre enunciazioni abitate, i nostri pensieri schiavi del groviglio intertestuale, del continuo ed inarrestabile citazionismo, manipolati dal tiranno Linguaggio. E non c’è nessun collegamento tra realtà e lingua, nessuna referenzialità, ma la lingua, anche quella d’ogni giorno, è tutta poetica, tutta autoreferenziale. In sostanza usiamo verbi di altri che non parlano del mondo ma di se stessi. Dunque quale responsabilità, per quel che si dice o si scrive, se siamo servi dell’espressione? Per Roland Barthes, nessuna.
Lasciate, invece, che capovolga la situazione: a parer mio l’intertestualità è libertà. Parto intanto dalla referenzialità: la lingua segmenta, taglia, sceglie, quel che vuole e in modo arbitrario dal continuum reale; alcune lingue selezionano dei colori e li inseriscono nei loro vocabolari ed altre altri colori, ma, citando Antoine Compagnon, sempre dello stesso arcobaleno si tratta. Ed inoltre “se l’essere umano ha sviluppato facoltà linguistiche, dopo tutto, lo ha fatto proprio per parlare di cose di ordine non linguistico.”( Antoine Compagnon,Il demone della teoria – Letteratura e senso comune, Einaudi, 2000, p.135)
Fermo restando che quest’ultima affermazione può essere opinabile, per la mancanza di studi adeguati alle spalle, resta il fatto che quella di Barthes è un’illusione autoreferenziale. La lingua, e la letteratura, parla anche della lingua, ma ciò non toglie che possa parlare pure del mondo. L’accento sull’autoreferenzialità non è una caratteristica propria della lingua, ma un suo atteggiamento, semmai. Vero è, come argomentava Rolando, che un testo, anche il più realista, non può essere usato come un libretto delle istruzioni, cioè, dalla sua lettura, non ne traiamo un riflesso della realtà. Ma questo non vuol dire che la lingua parli solo di se stessa o crei uneffetto di reale.
La letteratura è indeterminata ed indeterminabile, perché l’atto creativo è demandato al lettore che detta le regole del gioco e nello stesso tempo si lascia guidare, che è attivo ed è sedotto. Come in un amplesso, il lettore ed il testo sono due amanti, che giocano a fare l’amore fingendosi a volte dominatori intransigenti, altre volte succubi passivi.
Nella lingua comune, che non pretende di farsi arte, c’è meno finzione, più trasparenza. Il linguaggio non è più un ostacolo ma ponte. Questo perché soggiaciamo a determinati parametri convenzionali di cui non ci accorgiamo, come dice Barthes, ma proprio in funzione di tale trasparenza necessaria ad una comunicazione immediata.
Tutto questo nel testo letterario salta, non perché la lingua della letteratura abbia degli elementi linguistici diversi dalla lingua comune, che la rende più opaca, ma perché i lettori (e gli autori) si pongono nei confronti del testo, considerato letterario, in modo diverso, ossia problematico, inquieto, smaliziato. Il problema sta nel capire cosa fa di un testo arte. Che cosa è la letteratura? Ma per rispondere a questa domanda mi appello aldubbio iperbolico di Compagnon, lasciando di fatto in sospeso la questione.
Ritornando all’esempio del libretto delle istruzioni, l’opera dà delle indicazioni al lettore che autonomamente interpreta costruendo dentro di sé una storia, stratificata ed ipoteticamente infinita, che dipende da una serie di fattori ambientali, temporali, ideologici, che sono individuali. Si può discutere sull’effettiva libertà del lettore e dell’uomo in senso lato, cioè se sia schiavo di qualche altro fattore, ma la lingua vincola relativamente. Ci sono sensazioni, idee, pulsazioni, che seppure non troviamo le parole per esprimere (“ce l’ho sulla punte della lingua”) o per nostra dimenticanza o per l’assenza di tale termine nella nostra lingua, esistono e ne siamo ben coscienti. Sta poi ai lettori da una parte e all’artista dall’altra esprimere e costruire l’inespresso e obliare il superfluo. Così le lingue cambiano, si trasformano; noi crediamo siano morte, ma poi inaspettatamente riemergono, perché esse non si arrestano mai.
E l’intertestualità è libertà perché, anche se è vero che ripetiamo parole d’altri, semi-altrui come direbbe Bakthin, o meglio quasi-altrui visto che la lingua muta col correre del tempo ed il variare dello spazio, l’intertestualità è libertà perché tra tutte le parole già dette, con significati a volte differenti e lontani dalla nostra epoca oppure vicini e usati e abusati, ognuno può scegliere le sue, modificarle come vuole, creare significanti a cui attribuire nuovi significati. Questo ipoteticamente, e sempre se chi usa le parole ne sia capace, altrimenti nessuno si capirebbe. E mi viene alla mente il neologista Gadda, che del modificare verbi ha fatto un’arte, ma anche lui, pensandoci, era sottomesso alle costruzioni linguistiche dell’italiano, dei dialetti (romanesco, milanese, toscano, ecc.), dell’italiano arcaico, del latino, del greco, delle correnti letterarie del passato, ecc. Infine la nostra è una libertà più modesta, quella di poter scegliere per noi le parole dei dizionari e combinarle nemmeno tanto a nostro piacimento. E per il buon Rolando questa non si può certo chiamare libertà.
Le parole sono come sassi, però, e c’è chi le usa per ferire. La critica marxista ci teneva a dire che il linguaggio serva a veicolare il punto di vista, univoco e monologico, della cultura dominante e che l’intento centralizzante e autoritario dello Stato induca ad un’unificazione linguistica ed ideologica, necessaria per controllare un popolo. I testi approvati dal fascismo, i libri di scuola volti ad educare la gioventù littoria, i romanzetti proni all’ideologia del Duce, nel ventennio non mi sembrano essere tanto ingenui e schiavi di un linguaggio astratto. E dire che l’italiano del ventennio fosse stato una lingua squadrista è folle e non farebbe onore alla letteratura antifascista che veniva scritta sottobanco in quegli anni.
Anche se siamo asserviti ad uno strumento linguistico e alle sue leggi interne (che poi sono più o meno infrante nell’uso), non vuol dire che questo strumento non possa essere utilizzato consapevolmente. Ma questa consapevolezza, ripeto, è relativa e limitata, perché l’autore non controlla tutti i significati possibili. I significati vengono attribuiti ai vari significanti presenti nel testo solo e soltanto dal lettore e solo e soltanto nel momento esatto in cui legge. Così ogni lettura sarà diversa dalla precedente e da letture fatte da altri. Allora nessuna responsabilità autoriale, nessuna colpa.
Chi ha scritto i testi di propaganda fascista, per esempio, sapeva bene cosa faceva e cosa voleva, la sua intenzione sembra abbastanza chiara ed evidente (in altri casi l’intenzione dell’autore è tutt’altro che palese). Anche nell’ipotesi di una quasi assoluta certezza dell’intenzionalità autoriale, la responsabilità per ciò che quelle opere hanno indotto, non ricade sui loro autori. Questo perché l’intertestualità concede al lettore l’arma della scelta. Chiaro è, però, che chi più ha letto, di più autori e delle più svariate idee e tematiche, ha maggiore possibilità di scelta, maggiore libertà. Non è il caso per esempio di un semianalfabeta o un ragazzo costretto dal regime a determinate letture. In questi esempi vi è un’imposizione di forza dettata una dell’ignoranza, l’altra dalla censura. Qui la responsabilità di una comprensione inadeguata o di determinate azioni indotte da letture univoche, sta nella società che non mette a disposizione sufficienti mezzi culturali o nel disinteresse dell’individuo da una parte e dall’altra nella volontà coercitiva della dittatura.
E chi più ha letto meglio smaschera le storture, le dietrologie, perché compara e collega i testi, e le parole degli altri riemergono nel suo pensiero anche inconsciamente, ma una volta fatte proprie le può usare come mezzo di valutazione. Cioè acquisisce quel materiale linguistico che gli permette di costruirsi delle idee proprie e lo affranca dalla schiavitù del linguaggio. L’unico modo per uscire dal post-moderno, dall’incubo del labirinto intertestuale, dal vaniloquio citazionista e dalla servitù della lingua è conoscere i meccanismi del linguaggio, farlo proprio e piegarlo alla nostra volontà. Così solo potremmo ritornare ad esprimere il non detto, non alla ricerca di una romantica e nostalgica originalità, ma di un’autenticità che da tempo abbiamo perduto.

IV – Conclusione: serendipità
“Quando si scrive una poesia è frequente la serendipità: miri a conquistare le Indie e raggiungi l’America.” Così Andrea Zanzotto spiegava il suo lavorio estetico. La poesia come intuizione casuale e strepitosa. Non tanto quel concetto romantico, ormai tanto odiato e demodé, che vede nel poeta un semidio lungimirante ed incompreso, un po’ vate e un po’ maledetto, ma, la serendipità sta proprio ad indicare quanto sia fortuito il gioco della poesia.
Tutto è dettato dal caos. Dopo ci sono quelli che cercano le cause, le fonti, le influenze, gli ipogrammi, gli intertesti. A volte ci azzeccano pure, ma si tratta di … serendipità!
Poetare è come andare a piedi, sentenziava John Searle: si muovono i piedi, si sollevano le gambe, si tendono i muscoli, tutto ciò non richiede premeditazione, soltanto l’intenzione di camminare. Il poeta intende fare poesia, nient’altro. Non ne premedita i significati ulteriori, non ne conosce prima le sue eventuali evoluzioni. Quando scrive non controlla di dentro, sillaba per sillaba, le singole parole; il suo è un lavorio interiore, non tanto inconscio, quanto abbastanza inconsapevole.
Dietro questa inconsapevolezza, semi-incoscienza, i decostruzionisti hanno visto il complesso groviglio intertestuale, il già detto che ritorna. Che angoscia! Questa è la contraddizione post-moderna: se sopravvivesse soltanto il già detto, il già noto, le parole degli altri, non esisterebbero le belle parole nuove della critica, della scienza, della filosofia, della teoria. Non esisterebbero più le belle parole nuove di chi si crede umilmente in ritardo.

Giulio Foderà

Sull’ Ambivalenza di Apollo



Dall’ Arte Antica e da Nietzsche ci viene tramandata un’ immagine gloriosa e di quieta maestà dell’Olimpico Apollo.
Ma là, ove c’è Luce, si trova sempre il buio più profondo [Deus est tenebra in anima post omnem lucem relicta] . Si dimentica spesso di considerare ogni aspetto della sua Divinità.
Entriamo nella Tenebra.
L’Apollineo si manifesta principalmente nelle arti, nella poesia, nella musica e nella regale stasi dello stile Dorico (è una delle principali Divinità del pantheon di questo popolo indoeuropeo): ma le sue epifanie possono avvenire in modi che non ricalcano lo stereotipo a noi tramandato; un esempio viene dato da Omero nel primo libro dell’Iliade:
“al santo Apollo di Latòna figliol, fe’ questo prego: “Dio dall’arco d’argento, o tu che Crisa proteggi e l’alma Cilla, e sei di Tènedo possente imperador, Smintèo, deh! m’odi: se di serti devoti unqua il leggiadro tuo delùbro adornai: se di giovenchi e di caprette io t’arsi i fianchi opimi, questo vòto m’adempi: il pianto mio paghino i Greci per le tue saette”.
Sì disse, orando. L’udì Febo, e scese dalle cime dell’Olimpo in gran disdegno coll’arco sulle spalle, e la faretra tutta chiusa. Mettéan le frecce orrendo su gli òmeri all’irato un tintinnio, al mutar de’ gran passi; ed ei, simile a fosca notte, giù venìa. Piantossi delle navi al cospetto: indi uno strale liberò dalla corda, ed un ronzio terribile mandò l’arco d’argento. Prima i giumenti e i presti veltri assalse, poi le schiere a ferir prese, vibrando le mortifere punte; onde per tutto degli esànimi corpi ardean le pire.” (Iliade, Libro I, versi 45-68).
Ma facciamo un passo indietro per far si che questo passo, assieme ad altri non stonino con la bellezza plastica di Apollo.
Conosciamo tutti i miti greci sui vari Eroi e sulle varie Divinità, miti tramandati attraverso il tempo (fissiamo un punto: il mito non è una favola, né, come spesso si dice, una spiegazione pre-scientifica del mondo; il Mito è il residuo di una Sapienza perduta, un Simbolo della più alta Realtà): quello riguardante Apollo, significativo del caso qui esposto è quello che gli guadagnò gli epiteti di Aphetoros (dio dell’arco) e Argurotoxos (dio dall’arco d’argento),oltre che altri a questo legato . E’ il Mito dell’uccisione di Pitone, il drago che circondava Delfi: il drago, come la serpe, in varie tradizione, specie in quella nordica (è il caso dello Jörmungandr o Serpente del Mondo) , ma anche in altre, rappresenta gli influssi negativi della Terra (non per niente Pitone è figlio di Gea, uno degli dei primordiali della Grecia pre-indoeuropea). Legato a questo epiteto v’è quello di Coelispex, in quanto, nella stessa Delfi fu dedicato ad Apollo l’Oracolo omonimo, considerato nell’età antica “Centro del Mondo”.
Questo è solo una delle possibili spiegazioni: ma per non sembrare deboli appoggiandoci alla sola tradizione mitica greco-romana, ci spostiamo in tre diverse zone “tradizionali”: L’India, l’area celtica, e il medio -oriente.
Area Celtica: i celti avevano come Divinità della caccia Karneios o Cernunnos, Signore della Natura per eccellenza: Questo Dio-cervo, fu assimilato ai tempi della conquista romana ad Apollo: gli storici lo tramando con nome di Apollon Karneios; questa assimilazione è dovuta al titolo di Lycoctonus, o uccisore di Lupi: questo titolo assieme a quello di dio dell’arco rendono pienamente l’assimilazione tra i due; potrebbe sembrare ovvia come conclusione, ma come rafforzamento aggiungiamo che il nome “Karneios” è intimamente legato a quello di Apollo per via dell’epiteto Coelispex, o scrutatore del Cielo: la radice del Nome del Dio celtico è KRN, la stessa che in greco forma Keraunos (il fulmine) e in latino Cornu e Corona: questa radice è espressione di potenza (Le corna dei buoi lo sono), di regalità (la Corona) e di potere divino
(il Fulmine, che tra l’altro colpisce solo le vette elevate), e questo fa si che l’elevazione e la capacità oracolare accomuni queste (apparenti) due divinità siano invero una sola.
Medio -oriente: per ritornare sull’aspetto distruttivo del Dio Apollo, citerò un passo dall’Apocalisse di Giovanni di Patmos: “E aveano come re sopra di loro l’angelo dell’abisso, il cui nome in ebraico è Abaddon, e in greco Apollion” (Apocalisse ,IX, 11). Il nome Apollyon altro non è che il nome greco del Dio per esteso, e trasposto dal greco all’ebraico significa il Distruttore: colui che più in là nel libro (Apocalisse 20:1) prenderà il Serpente e Satana e li getterà nell’Abisso chiudendoli per un periodo di mille anni. L’Analogia tra Pitone e la Serpe biblica è molto significativo.
India: in questa parte del mondo, come in molte altre, il Sole è considerato il Signore della vita, il Rigeneratore, La Conoscenza e il Simbolo della Verità per eccellenza, rappresentato in questa cultura plurimillenaria dall’Aquila o Garuda, l’uccisore dei Naga o serpenti. Ma memori degli aspetti terribili del divino, venne al Sole un secondo simbolo o aspetto: quello dell’Avvoltoio, rappresentante dell’aspetto mortifero e che trova nel buddhismo tibetano lo psicopompo addetto al rito della sepoltura celeste.
Da questa analisi spero di aver reso il più chiaro possibile il legame profondo che unisce vari simboli appartenenti a diverse tradizioni, e di aver ricordato a considerare la totalità degli aspetti di un Dio o si un Simbolo Sacro.

Giovanni Busà

Socialismo sociologico: sulle origini della comunità apocalittica



Da quando la scimmia è diventata un essere umano non si è evoluta l’umanità ma la sua tecnologia. Ha detto Albert Einstein: “L’uomo ha scoperto la bomba atomica, però nessun topo al mondo costruirebbe una trappola per topi.
Scrive Svevo nella “Coscienza di Zeno”: “La vita attuale è inquinata alle radici. L’uomo s’è messo al posto degli alberi e delle bestie ed ha inquinata l’aria, ha impedito il libero spazio. (…) Questa malattia non può appartenere che alla bestia che conosce un solo progresso: quello del proprio organismo.  Allorché la rondinella comprese che per essa non c’era altra possibile vita fuori dall’emigrazione, essa ingrossò il muscolo che muove le sue ali e che divenne la parte più considerevole del suo organismo. La talpa si interrò e tutto il suo corpo si conformò al suo bisogno. Il cavallo si ingrandì e trasformò i suoi piedi. (…) Ma l’occhialuto uomo, invece, inventa gli ordigni fuori dal suo corpo e se c’è salute e nobiltà in chi l’inventò, quasi sempre manca in chi li usa. Gli ordigni si comprano, si vendono e si rubano e l’uomo diventa sempre più furbo e più debole.
E’ l’uomo schiavo di ciò che possiede? Personalmente, non credo. E’ invece mia opinione che il concetto di proprietà non preveda necessariamente sedentarietà. La sfera del privato nasce per merito, ed il merito è frutto di una gerarchia che per ipotesi inizia con un apparato comunitario che si evolve poi in un complesso sociale. Nascono così l’ordinamento delle leggi e la causa della rieducazione, in via del perfezionamento della struttura stessa. Man mano le singole interazioni diventano parte di una funzione d’utilità. Il contratto sociale prevede una libertà in potenza che si attua tramite lo stato di diritto. Sarebbe opportuno a questo punto soffermarsi sul concetto di utile distinguendolo dal concetto di uso e per fare questo partiamo dall’ appetito. L’appetito è un inclinazione, un desiderio che tende verso un oggetto, da intendere qui riferito anche alle persone in quanto oggetto desiderato.
Esso è buono per chi desidera e la tensione non conosce futuro, vive un presente che è proprio dell’utile, di ciò che è considerato vantaggioso e favorevole  nel momento. E’ chiaro che i beni temporali risentono dell’attacco del tempo: la coscienza di finitudine che crea la paura di perdere quanto ottenuto, dunque al desiderio succede la paura che rifugge il futuro come portatore di morte. Si instaura la consuetudine che è propria dell’uso: il controllo di una particolare utilità, la sua difesa e spinta evolutiva, qui da intendere nell’accezione di semplice cambiamento. La carità è propria di chi accetta un futuro senza identità di morte mentre la cupidigia è propria di chi ha paura e vuole controllare quanto ottenuto. Dunque l’essere umano è schiavo della percezione che ha di se medesimo in quanto cosciente della propria mortalità, vivendo un orizzonte di relatività del bene e del male pur sapendo cosa è buono e cosa è cattivo per la propria sicurezza.  “Cattivo” si collega a cattività, dal latino capio/capere nell’accezione di catturare ed è il supino del verbo: captivus/prigioniero/nascosto/incatenato. La perdita della progettualità delle cose è il motivo per cui siamo spinti a pensare che effimero sia semplicemente ciò che non dura, mentre è evidente, alla luce di questo discorso che questo termine indica l’assenza di un vero e proprio passaggio della propria esistenza. Ma cos’è dunque la materia?  La materia è un binario che divide l’anima dal tempo.
E’ possibile non ammettere la presenza di un anima ma nemmeno la scienza riesce a spiegare perché a volte si piange senza nessun motivo apparente, senza nessuna ferita visibile, oppure ci si sente pervadere da un senso di soddisfazione quasi totale. Il tempo misurato, riconosciuto come punto di riferimento si esprime nella forma invece che nella sostanza, una forma già corrosa. La temporalità delle cose è stata legata alla loro materialità riducendo l’esistenza ad un teatro di maschere e nulla più. Dunque quando parliamo di crisi a cosa ci riferiamo? Ciò che sta accadendo è troppo radicale per essere quantizzato alla solita rivolta dei contadini malcontenti, a mio parere. Credo che per la prima volta accada che la dimensione del premeditato stia letteralmente sparendo. Le rivoluzioni organizzate hanno creato nuove organizzazioni ed è quindi prevedibile uno stato non deciso di cose che porti ad un cambiamento radicale o che ne faccia da catalizzatore. Naturalmente il controllo mediatico e la pressione economica di chi possiede i mezzi di produzione giocano un ruolo di difesa per chi ha da quasi sempre quello che ha e non vuole di certo cambiarlo. Se dicessi che stiamo vivendo la “terza guerra mondiale” chi mi crederebbe sul serio? Tecnicamente ogni paese ha un esercito e delle alleanze e conduce delle guerre di conquista piegando con debiti e ricatti economico/politici le popolazioni locali. Non ci saranno bombe atomiche ma il “fosforo bianco” per esempio, scene di militari inglesi accanto a militari italiani e così via.
Viene da pensare che mancano i bombardamenti nei paesi civili, o quasi, per via dei legami dell’intero mercato immobiliare occidentale. Occorre precisare che si è passati dal ben più noto capitalismo classico al capitalismo dello sviluppo tecnico come un’ assuefazione legata alla stessa promessa di sicurezza che decade e si rigenera per mano della stessa autorità, ovvero l’obbligo di esser-ci, l’obbligo di non poter essere. Perché la potenza è l’atto in sè che si presenta come un fenomeno localizzato nella sua sostanza mentre il potere è vicino all’uso, ed esso non trova più compimento concreto se non nella vaga illusione di controllo. Ma cos’è   dunque l’apocalisse? Il significato di questa parola è rivelazione, dal greco apo/non e kalyptein/nascondere. La cristianità la teorizza come rivelazione finale, che il pensiero ha scontato a fine e basta, nella comprensione di questo evento, preannunciando scenari desolati, guerre batteriologiche fino alla più famosa estinzione finale del tutti contro tutti. Un mistero si rivela in quanto tale, non conoscibile ma presente. Lo sconto deriva dall’ intelligenza che non asseconda la razionalità, chiede invece di essere servita, giustificata nell’azione di scavare nel nulla. E da qui nasce la banalità del male. Ha detto Hannah Arendt: “È anzi mia opinione che il male non possa mai essere radicale, ma solo estremo; e che non possegga né una profondità, né una dimensione demoniaca. Può ricoprire il mondo intero e devastarlo, precisamente perché si diffonde come un fungo sulla sua superficie. È una sfida al pensiero, come ho scritto, perché il pensiero vuole andare in fondo, tenta di andare alle radici delle cose, e nel momento che s’interessa al male viene frustrato, perché non c’è nulla. Questa è la banalità. Solo il Bene ha profondità, e può essere radicale.
Dunque il male esiste, la cattiveria si crea ed il bene? Esso non si annuncia come conoscibile ma perseguibile, per privazione originale, ovvero una condizionata mancanza che si tende a colmare. Non è mia intenzione creare una morale dall’alto che regoli la vita delle persone, tuttavia credo sia importante parlare di una dialettica formale che è relativa e che quindi in quanto dialettica ed in quanto relativa prevede relazione, interazione. Con i  dualismi viceversa si cade nel dubbio metodico della tecnica e nel falso paradiso dei funzionalismi.  ”Capio” ha anche significato di comprendere, e quindi penso sia  corretto in via auspicabile affermare che i cattivi imparano. Non è forse di una rivoluzione culturale che abbiamo bisogno?
Ma la cultura richiede pazienza, passione, costanza, serietà con se stessi, tutti elementi poco presenti nell’interesse di oggi per la realtà. Così la sicurezza di cosa succede dopo diventa la noia di un nostalgico “io c’ero”/volevo esserci, ma, volendo citare Benson, una psiche rivolta verso il futuro può costruire un solido presente. La sciocca curiosità distrugge la speranza ed instaura limiti, resi funzionali da un falso debito di giustizia. Data la pluralità delle individualità ci si pone la domanda: “Cosa posso fare? Che ruolo ho nella vicenda? Che ruolo hanno i miei simili in questo momento?” Bisogna spingere a mio parere in una direzione religiosa. Il significato di religioso è riunire ed esso affonda le sue radici nel vivere il quotidiano, il presente che non decade perché rigenera la propria materia nello scambio e nei bisogni reciproci. Naturalmente prima di approdare ad un bisogno è importante colmare le necessità, ecco il socialismo. Così come è importante evitare che i bisogni si leghino al vivere identitario e perdano progettualità comune, ecco la sociologia. Tale socialismo sociologico permetterà a mio avviso la sparizione del privato come dimensione di prigionia nella visione che porta tutte le cose a misura d’uomo.
Fabio Platania