mercoledì 21 novembre 2012

L'aspetto più divertente del potere: la necessità del non essere, di Natale Anastasi

Siamo impossibili perché in(de)finite sono le nostre possibilità

«I bisogni indotti dal vecchio capitalismo erano in fondo molto simili ai bisogni primari. I bisogni invece che il nuovo capitalismo può indurre sono totalmente e perfettamente inutili e artificiali. Ecco perché, attraverso essi, il nuovo capitalismo non si limiterebbe a cambiare storicamente un tipo di uomo: ma l’umanità stessa. Va aggiunto che il consumismo può creare dei “rapporti sociali” immodificabili, sia creando, nel caso peggiore, al posto del vecchio clerico-fascismo un nuovo tecno-fascismo ( che potrebbe comunque realizzarsi solo a patto di chiamarsi anti-fascismo); sia , com’è ormai più probabile, creando come contesto alla propria ideologia edonistica un contesto di falsa tolleranza e di falso laicismo: di falsa realizzazione, cioè, dei diritti civili» ( Pasolini,1975)





Premessa riguardo la fiducia:

I rapporti umani sono sempre complessi. Una complessità spesso irrisolvibile che squarcia ogni forma di controllo, di sicurezza, e di cui spesso s'infrange l'omeostasi. Difficilmente infatti due parti combaciano insieme nello stesso mosaico, e ancor più di rado l'essere insieme è duraturo in mancanza di quella frivola e momentanea emozione chiamata infatuazione. Quando finisce "la passione" si è soliti affermare che i rapporti sono ormai sciolti. C'è chi invece sostiene che per star bene insieme si dev'essere in grado di saper vivere da soli, senza bisogni né dipendenze da caricare sugli altri. Da tutti questi momenti, che spesso diventano assai problematici, ci si pone la domanda: quale collante, se non la fiducia, l'aver fede, ossia l'amore nell'Altro, può permettere al rapporto di maturare, crescendo e superando i propri limiti ?

Eppure, quando la volontà si infrange sulle scogliere dell'immaturità e, schiavi delle proprie mancanze e dei propri limiti, ci si crede impossibilitati a rispettare la fiducia altrui, e ci si crede davvero manchevoli, avremmo bisogno d'indagare i perché delle nostre azioni e se davvero chi ci sta dinanzi e che magari abbiamo fatto soffrire non ha fatto nulla per meritarsi ciò. Bisognerebbe avere quindi la forza di chiarirsi prima con se stessi e poi con gli altri. Considerando sempre se gli altri abbiano recepito ed accettato ciò che doniamo, e se davvero interessa loro. 
La risultante è, quindi, che ci vuole autostima per essere all'altezza di meritarsi la fiducia e il rispetto, ma ancor di più ci vuole maturità per selezionare le persone che vogliamo davvero con noi. Un rapporto è sempre un affidarsi reciproco e quando vi sono delle incomprensioni e/o delle gravi mancanze che deteriorano il rispetto reciproco o univoco, si scade o nel do ut des, o nel cameratismo (si sta insieme perché non si può fare altrimenti), nell'opportunismo, nel comodismo (stare insieme per abitudine) o ci si allontana, prima o poi, nel silenzio senza spiegazione. A volte, ancora, la morale personale richiederebbe un comportamento altrui simile a quello che noi adotteremmo su noi stessi e verso gli altri, mentre invece ci relazioniamo con persone da cui bisogna aspettarsi sempre di tutto e che risponderanno alle nostre azioni nel loro modo di essere. E ancor maggiormente chiedersi: con quale disposizione d’animo, con quale approccio, con che intenzione ci poniamo le domande sui significati di ciò che da noi si dipartirà? Identità appunto intesa come continuità di divenire chi si è, non come sforzo ad essere ciò che gli altri vorrebbero da noi. Si imita non imitando, imitando chi imita costruiamo la riproduzione di una statua di sale.  

Quindi, dato che soltanto raramente otteniamo ciò che ci aspettiamo di ricevere dagli altri, c'è il rischio di idealizzare fin troppo i rapporti per le nostre finalità, legandosi alle immagini mentali create su chi crediamo ci stia dinanzi, che però non corrisponde agli schemi concettuali che, seppure inconsciamente, abbiamo creato. Come dire, in altre parole, che dall'unione della povertà e dell'espediente necessitiamo d'incontrare parti di noi in altri, cercando tutti i segnali possibili per confermare le nostre credenze sulla reale esistenza di quella che invece è un'illusione, incarnandola affinché possa davvero corrispondere al nostro modo d'essere. Motivo per cui si potrebbero elencare infinite espressioni di uso comune. Sembra pertanto necessaria per molti questa componente affinché possa generarsi ciò che viene chiamato "amore". D'altro canto c'è chi nelle varie forme di philia sostiene sempre una necessaria idealizzazione, per lo slancio emotivo connesso a questo superamento del "razionale", che serve quindi a noi stessi e che crediamo possa donarci l'altro, quando è in atto un processo di simbolizzazione. Negare il possibile superamento di ogni forma d'idealizzazione del resto sembra un'astrattezza se non calata nel particolare dell'esperienza soggettiva; il tentativo qui posto non propone verità assolute e lascia al lettore una risposta aperta. Ma negli imprevisti, su cui si basano gran parte dei momenti delle nostre esistenze, come poter sopravvivere al carico di queste idealizzazioni ? Molto più semplicemente, suppongo sia più auspicabile uno sguardo divergente sulle realtà che osserviamo. Altrimenti saremmo solo frutto del nostro puro narcisismo, del credere che gli altri ci amino quando in realtà l'amore che crediamo di ricevere è solo il nostro, riflesso negli occhi altrui. 

Pensare però che a priori, con strategia, si possano e si debbano costruire dei rapporti basati sulla condivisione di similarità (idee, azioni, interessi vari) non dà l'impressione di rimandare a quell'autentica semplicità ed immediatezza del vivere in prospettive meno chiassose, di spontaneità, e di comprensione intuitiva. Si è insieme, corpi, idee e sogni. Perché "costruire", termine alquanto artificioso, il sentire sul linguaggio verbale e sul pensiero conscio è sempre una porzione molto limitata e limitante della comunicazione ed è proprio l'inconscio a determinare spesso e volentieri i nostri comportamenti a cui non sappiamo dare una spiegazione o che crediamo di averla già data, con certezza ferma. Ebbene, credo che la certezza sia necessaria per poter sopravvivere, ma in alcuni ambiti, come questi appena descritti, occorre essere sempre consapevoli della limitatezza dei propri punti di osservazione. Ci vuole umiltà, conoscenza di sé tramite l'accettazione dei propri limiti, che a volte è possibile superare, e l'ammissione delle possibilità che ve ne siano altri di cui non conosciamo la natura, ma che determinano i nostri modi d'essere. 

Pertanto «il dialogo dovrebbe essere semplicemente un suono fra gli altri, solo qualcosa che esce dalla bocca delle persone, i cui occhi raccontano la storia per mezzo di espressioni visive» (Alfred Joseph Hitchcock).

Da questa premessa posso chiarire ora il punto riguardo al potere, ossia del controllo che si ambisce ad esercitare per la paura e per la convenienza a viversi senza frapporre agli altri le nostre sovrastrutture ideologiche.


Tesi, antitesi e sintesi sul Potere:

L'effetto del non essere è l'atmosfera su cui penso si formi il potere, che a mio parere può esser motivato dalla relazione inconscia dell'esistenza tramite il gesto: nell'azione, nel poiein, da cui si cerca di modificare la realtà virtuale in base alla propria essenza; questa sembra vivere solo nell'attimo in cui l'azione è pensata virtualmente ed ha un corrispettivo successo. Ed il successo, seguendo tale discorso, sarebbe rappresentato dall'effettivo ritorno potenziato di ciò che noi immettiamo nel sistema; il potere si amplifica costruendo su se stesso. Ed il potere moltiplicato si ottiene solo tramite l'imposizione moraleggiante del dover fare, dell'applicare con forza la legge morale universale, cadendo nel moralismo. 
E’ un concetto conchiuso: da un lato della legge procede per indeterminatezza, dall’altro ricava la sua essenza dall’accettazione dei dogmi. Vive nascosto, quindi, perché il suo carattere è l’ambiguità. Non si avanza perciò di un sol passo. Morta l'azione, trascorsa la sbornia pragmatica dello "stare nella realtà", si estingue, esanime, l'esistenza. 

Se l'azione fallisce decade la possibilità di intervenire e, quindi, ci si sente inesistenti perché inefficaci: dei veri e propri fantasmi. Si giunge alla biforcazione: o si desiste, alienandosi e cedendo il passo alle psicopatologie, oppure si potenziano i mezzi a propria disposizione, sfruttando e sfruttandosi, vivendo solo di essi. Stenti.

Si cercheranno tutte le cause del fallimento e ci si imporrà di pensare esattamente nel modo in cui gli altri pensano, perché da sottomettere. Si crea così una sorta di simulacro, uno specchio, un campo di rifrazione in cui viene riflessa la nostra luce, in un bagliore rappresentato dall'azione compiuta; ma l'assenza di azione, dell'esercizio del poter essere, equivale in tal caso al negare la propria esistenza. Si mette in atto un meccanismo di difesa: la rimozione inconscia del "fallire". Il fallimento è l'unico limite che il potere può conoscere, per questo lo oscura. Quindi l'ipotesi: se non esistiamo, perché le nostre azioni non hanno un senso in quanto non hanno successo, si costruisce una realtà artificiale, si vive di simulazione; si rappresenta l'uomo come un cyborg, motivo per cui alla solitudine si sostituisce "la compagnia" del pc, del libro, del boy toy e della girl toy, dell'oggetto in genere, che da strumenti per le nostre intuizioni passano ad essere caricati di totemica forza, opponendo all'anacoretismo la vita in piazza, in strada, con altri esseri. La solitudine può essere un momento cairotico, benedetto, solo se si comprende di stare insieme ad altre forme di realtà - gli animali, le piante, il mare, la montagna, le stelle - aumentando e diminuendo i contatti con la macrorealtà del tempo mondano vissuto appunto dall'homo faber. Diversamente l'oggetto diviene per noi l'unica forma che possiamo tenere costantemente sott'occhio modificandola a nostro piacimento ed ottenendo più facilmente i risultati sperati. Ma l'oggetto, la cosa, sembra essere un'altra forma sdoppiata del nostro Io, del tutto in-esistente, un buco nero a tutti gli effetti, che ha bisogno di creare una realtà aliena rispetto a quella ecologica, opponendosi di fatto alla natura della propria essenza, che non vive solo nella progettualità della techne e dell'artificio, ma anche nell'attesa, nella speranza, nel dubbio, nel sentimento, nella non manifestazione, nell'istintività, nell'immaginazione. 

L’oggetto, tale in quanto mentale, non ha un corrispettivo reale, a meno che non si fondi un reale virtuale (i social network, i simbolo della creazione del profilo psicologico su ciò che si pensa di se stessi). Proprio perché tale concetto è strettamente connesso alla parola “privato”, col quale non si indica un sostantivo ma un participio passato. L’attaccamento all’oggetto, il bisogno di possesso, l’istinto di proprietà, sono tutte derivazioni e propaggini teoriche indotte dal sistema della logica scolastica amplificato dal pensiero illuministico, come ben espletato ne La Dialettica dell'Illuminismo da  Adorno e Horkheimer: esso si ripercuote sino ai nostri giorni per mezzo della negazione del carattere d’indeterminatezza degli universali. Curioso potrebbe essere perciò l'aggancio possibile con il correlativo oggettivo: "una serie di oggetti, una situazione, una catena di eventi pronta a trasformarsi nella formula di un'emozione particolare"; che nega dunque le caratteristiche, i confini epistemici, della sfera concettuale dell’oggetto che siamo diventati per noi stessi. I confini inesistenti tra l’oggetto, la cosa in sé, e le varie forme espressive di realtà generano però una barriera logica e proposizionale.
Dalla deduzione all’induzione non si chiarifica l’essenza e ci si reca nella radura dell’ideale: «odioso tutto ciò che mi istruisce soltanto, senza accrescere o vivificare immediatamente la mia attività» (Goethe).

E poi, in quest'ottica, la volontà di possesso sembra coincidere con l'assenza della volontà. Volontariamente si crede di poter cercare il "potere" su un qualsiasi oggetto, ma il potere è indefinito perché è sempre riferito a "x" . Perciò, se l'avere non coincide con il possedere, perché il primo determina il secondo a suo oggetto, il riferimento non ontologico serve solo a determinare un perimetro del pensiero ma non dell'azione teoretica. «Può tracciare il perimetro di questo importante concetto? Del resto i suoi testi insistono sullo spazio come distanza "mentale». Troppo in fretta si pone il corrispettivo oggettivo con l'aggettivo possessivo.

«[…] se l'ideale coincidesse con la realtà, scriveva Croce in pagine forti e acerbe, non ci sarebbe bisogno di distinguere tra ideale e realtà; e il non coincidere con la realtà non toglie all'ideale nulla del suo pregio, né esonera l'uomo dal fare ogni sforzo per raggiungerlo, o, almeno, dal tendere ad esso, e dal sospirarlo». (Zizek) 




Risulta così impossibile pensare il pensiero senza oggetto: impossibile smettere di pensare.  « Ha senso bramare le “cose”, se domani potranno non essere più mie? ». Non è tutto, purtroppo: ciò che noi siamo può passare tramite le azioni che noi compiamo, quindi che senso ha attribuirsi un significato solo per ciò che riconosciamo come un progetto progettato e realizzato, secondo noi, razionalmente? Quale pensiero è razionale, quale no, chi è razionale, chi è folle ? Le fandonie dell'accademia credo siano delle definizioni per correggere il dubbio allo scarto esistenziale. Funziona così il nostro gioco, basatevi sulle nostre regole, altrimenti non state nella realtà.
Ma, come insegna Thomas Kuhn ne La Struttura delle Rivoluzioni Scientifiche non esiste nella teoresi altro che il paradigma, quell'insieme di teorie condivise da un gruppo che ne sottomette un altro per confermare le proprie credenze con esperimenti ad hoc. Non occorre nessun algoritmo di come la scienza debba essere universalmente esatta, se non si vuol ridurre tutta l'esistenza al linguaggio imposto dell'oggetto. Non è una prova a favore del relativismo, certamente, ma della relatività dei saperi. Perché tra relatività e relativismo esiste una sola differenza: l'esperienza vissuta che, in quanto immediata ed autentica per questo, non abbisogna, in determinate condizioni in cui il regno della quantità e della qualità si è affievolito per la rarefazione dell'atmosfera percettiva, di dimostrazioni per assurdo valide per tutti gli esistenti. Si dimostra logicamente solo ciò che si vuol possedere dialetticamente, perché il desiderio di possesso aliena la nostra essenza dal nostro corpo, per delegare un movimento triadico e circolare al fine di "accorgersi" che la proprietà è privazione e la privazione è la morte del Sé. Per questo si ricerca ciò che sfonda le nostre barriere sensoriali: perché ogni stimolo dev'essere più forte del precedente per riuscire a toccarci; così si perde però il gusto del minimale, identificato col mediocre e col banale. Si può esprimere l'esserci in molti modi, e bisogna rendersi conto che ciò che si prova non trova un identico corrispettivo nell'altro: l'empatia verte sempre sullo scarto di esperienza, di sensibilità, di cognizione, e di tutto ciò che nel nostro presente rappresenta un'incognita inconscia e non considerata sul piano razionale.

Non ci si dà pace, per questo in molti e per molti, pensiamo alle relazioni appunto, non esiste la pace. D'altronde l'atto del manifestarsi potrebbe esser dovuto all'aspettativa che dobbiamo mantenere su di noi e l'azione quindi è tale solo se è pubblica, evidente sul piano oggettivo perché sovrasta sulle altre. Arriviamo così dall'ipotesi alla tesi, al sostanziale dubbio iperbolico: siamo impossibili perché in(de)finite sono le nostre possibilità. Si giunge così alle psicopatologie di massa, al culto della persona, al self made man, alla dittatura. Poter essere coincide quindi con l'ansia del divenire un progetto compiuto, quando si è già immersi nel divenire ed il progetto si compie anche senza la nostra consapevolezza. Insensato porre quindi un Ego davanti allo specchio per generare un duplicato attivo, perché la differenza tra l'interiorità e l'esteriorità è mutuata dal fallimento e dal successo dell'azione sul mondo. Quindi, se il successo e il fallimento sono soltanto delle illusioni dello stato umano che si rapporta al mondo con la premeditazione sugli effetti necessari che si otterrebbero dalla sua azione, cosa resta ? Il rapporto frammentario dell'Io col proprio ambiente, con la comunità, e la strenua ricerca del non essere ciò che si è immediatamente, per costruirsi delle infinite possibilità formali basate sul razionalismo e sulla credenza valoriale. Se l'azione “vale” solo se ha quell' effetto che noi vogliamo, si giunge all'idealismo del nostro tempo: la tecnocrazia. E la forza della tecnica proporrei di visualizzarla secondo un’accezione proustiana dell’abitudine, perfettamente consonante a mio avviso al concetto humiano di uniformità della natura, secondo cui «la costanza di un’abitudine è di solito proporzionale alla sua assurdità». Una giusta proposta per la conclusione pare quindi il seguente pensiero, non credete ?

«Guardo spesso indietro nel mio passato e mi dispera il tempo che ho impiegato a trovare questa soluzione. Ho una sola consolazione: quella di dirmi che mai ho potuto usare forme procedenti da vie logiche, ma solo quelle che un interno impulso faceva nascere in me. Mai ho potuto "combinare" una forma: ogni forma voluta mi ripugnava. Quelle di cui mi sono servito nascevano spontaneamente, mi si presentavano già pronte davanti agli occhi, non mi restava che copiarle; oppure si formavano mentre lavoravo e spesso avevano il potere di sorprendermi. Con gli anni appresi a guidare un poco questa forza creatrice. Mi sono esercitato a non lasciarmi semplicemente andare, ma a dirigere e a frenare la forza che opera in me. Con gli anni ho imparato che il lavoro con il batticuore, un senso di oppressione al petto e di angoscia in tutto il corpo, con dolori intercostali, non basta. Può salvare l'artista ma non la sua opera. Il cavallo porta il cavaliere con forza e velocità, ma il cavaliere guida il cavallo. Il talento trascina l'artista con forza e rapidità verso grandi altezze, ma l'artista conduce il suo talento». (Vasilij Kandinskij)




Natale Anastasi

1 commento:

  1. Precisamente questo sapere sulla cultura viene stillato o inculcato al giovane come sapere storico; cio significa che la sua mente viene riempita di un’enorme quantità di concetti che sono ricavabili dalla conoscenza, massimamente mediata dai popoli passati, non dall’intuizione immediata della vita; […] Già come se si potesse così, da frettolosi, passeggiatori della storia, imitare il passato nelle sue abilità e nelle sue arti, nelle sue vere conquiste di vita! Già, come se la vita stessa non fosse un mestiere che deve essere imparato dalla base e di continuo, e che deve essere esercitato senza risparmio, se non vuol fare sbocciare acciarponi e chiacchieroni; […] Defienda me Dios de my, Dio mi guardi da me, ossia dalla natura già da me acquisita. Essa deve assaporare quella verità goccia a goccia, assaporarla come una medicina amara.. [...] Ho forse ancora il diritto di me COGITO, ERGO SUM, ma non vivo, ergo cogito. Mi è garantito il vuoto “essere”, ma non la piena e verde vita; il mio sentimento originario mi assicura soltanto che io sono un essere pensante, non che io sono un essere vivo. Datemi prima la vita, e allora io vi creerò cultura.
    Nietzsche, Sull'utilità e il danno della storia per la vita

    F.Conti

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