martedì 20 novembre 2012

Che il lettore immagini il resto! Intertestualità e libertà


“Non ho perorato in favore di una teoria tra le altre, né del senso comune, ma della critica di tutte le teorie, ivi compresa quella del senso comune. La perplessità è l’unica morale letteraria.”
(Antoine Compagnon, Il demone della teoria – Letteratura e senso comune,Einaudi, 2000, p.285)

I – Introduzione: la lavagna intertestuale
“Dio è morto” andava bisbigliando alle vecchie del coro d’una parrocchia di Rocken un tale con dei baffi da brigante. “L’autore è morto” scriveva Roland Barthes, facendo il verso a quel tale, in un articolo provocatorio del ’68. Io aggiungo “il testo è morto” ed ancora “il lettore è morto.” Quanti cadaveri in questa pazza epoca!
Ma andiamo con ordine. Si parlava di Letteratura e lo Strutturalismo, in cui Barthes sguazzava, aveva decretato la fine di ogni studio relativo alla vita, alla morte ed ai miracoli degli autori (presunti tali) delle varie opere che gli editori ci propinano in libreria. Bisogna esaminare le carte, secondo loro, e solo quelle. Il resto sono raccontini vani che piacciono tanto ai fantasiosi storici ed ai marxisti sociopatici.
Il testo è quel che conta, le sue pagine consunte, le sue parole profonde, le sue lettere sbiadite. E chi se ne frega delle intenzioni dell’autore, del suo orizzonte d’attesa o del suo panorama d’azione? Domandarsi che cosa avessero in testa i Manzoni o i Leopardi quando scrissero ciò che scrissero è assurdo tanto quanto voler trovare nelle loro particolareggiate biografie i cardini fondamentali delle loro poetiche.
Negli scartafacci non c’è nulla che possa servire, né tanto meno nelle belle copertine rilegate, l’interessante sta nell’ovvio: nelle parole giuste delle stampe.
Allora presero a sezionare, a tagliare, a macellare le opere di autori e autrici spinti giù dalla torre. E scoprirono cose nuovissime e bellissime, e scrissero fiumi di inchiostro su tali scoperte, finché anche loro vennero gettati dalla torre. Ed anche lo Strutturalismo è morto.
Poi qualche fanatico come Stanley Fish disse che non ci fosse nessun testo nella sua classe,  che tutte le sue interpretazioni siano valide e che siccome dicendo tutto non si dice niente, anche le care paroline scritte sulla carta, tanto amate dai Barthes, sono state sterminate dal relativismo ermeneutico, se mai parola tanto stravagante e buffa abbia calcato il palco da protagonista.
E arriviamo ai giorni nostri in cui anche il lettore, unico faro di speranza in questo oceano nero in tempesta, sembra fiaccato e malaticcio. Decide davvero qualcosa in Letteratura, il suo ruolo qual è?, influenza o è influenzato?, scrive o legge?, riscrive?, vive?
Ma lasciate che vi dica una cosa: non è mai troppo tardi per prendere coraggio e dare un bel colpo di spugna su questa lavagna che è la Letteratura, qualunque cosa essa sia.
Si insinuano, sovente, invece, nella mia mente dei dubbi incessanti che mi arrovellano e non mi fanno dormire la notte. Ed adesso ve li ficco su nelle vostre care e smaliziate coscienze, cosicché anche voi, miei dolci amici, dormirete male. Sapete come si dice, mal comune mezzo gaudio.
Ma andrò per grandi. Fin ora abbiamo visto come tutti, chi più chi meno, hanno voluto dir la propria, hanno voluto scarabocchiare qualcosa sulla lavagna. E di certo non io che so poco o niente, mi arrogherò il diritto di prendere in mano la spugna. Impiastriccerò anche io quella bella ardesia nera, tanto cara alle maestre e tanto odiata dagli alunni un po’ svogliati, sperando che il mio umile e goffo contributo sia la goccia che faccia traboccare il vaso, ed un giorno qualcuno cancelli tutto per davvero.
È chiaro ed evidente che storici, marxisti, psicanalisti, modernisti, strutturalisti, post-modernisti, post-strutturalisti, costruzionisti e decostruzionisti, freudiani e post-freudiani, formalisti e nichilisti, critici e criticisti, futuristi e marinettisti, cattolici e musulmani, pizzicagnoli e portinai, abbiano, con tutte lo loro belle parole, raccontato un loro personalissimo giudizio sul mondo della letteratura. L’errore sta nel fatto che ognuno accampa diritti e pretende verità che non possiede. Sono tutti bei punti di vista che non si escludono a vicenda, ma presi a soli, come scienza esatta, limitano e vincolano il panorama. E questo è ciò che non vogliamo.
Voglio sapere del tempo in cui visse Petrarca, della politica di allora e della cultura materiale. Sapere il suo DNA, la sua storia, la vita vissuta appresso ad una ragazza e se quella ragazza fosse vera o no. Sapere quante volte il “Canzoniere” sia stato redatto e quante volte pubblicato, quali le sue revisioni e chi le abbia fatte. Sapere il manoscritto dove sia stato e, se ancora esista, dove stia, chi lo abbia vergato e chi lo abbia fatto, in quante mani sia passato e se sia stato tradotto. Sapere come fosse la calligrafia del poeta e la sua vita privata. Sapere tutte le parole scritte, il loro significato antico e quello moderno, le fonti da cui l’autore abbia attinto e i suoi maestri, il suo successo e le letture che altri abbiano fatto di lui. Sapere le influenze e le riscritture nel passato come nel presente. Sapere la mia prima lettura e poi la seconda e così via fino alla scomparsa di Francesco, fatto ombra e fantasma fra le carte, e l’epifania di me stesso. Sapere poi la mia morte in quelle parole, ed il divenire anch’io ombra.
E suvvia, chi mai può pretendere di ammazzare poeti, romanzieri e cantastorie, bruciare libri e rastrellare verbi! Queste sono tutte provocazioni ottime che tendono la mano a chi vuol dire altro spingendosi più a fondo nella questione.
Dunque ben vengano i Marx, i Nietzsche, i Barthes, i Fish o chi volete voi, a sommuovere il torbido che sta nel fondo, ad instillarci il germe del dubbio, a sovvertire il mondo. A noi resta l’atroce compito di farci nostre idee e ricostruire il cielo infranto.
Che ci siano pensieri divergenti a iosa questo è fuor di dubbio, ora bisogna che ognuno si scelga quello che preferisce o ne faccia uno ex-novo, che poi dal nulla non si crea proprio nulla. (Piacerebbe tanto ai sofisticati filosofi neoteroi che si cacciano in ogni trasmissione a far sproloqui lungimiranti quanto i loro nasi. Mi spiace per loro, nulla erano e nulla restano).
Ma torniamo a noi. S’è visto che ognuno ha la sua idea, il suo santissimo punto di vista. Ma allora la verità dove sta? Sta nel mezzo, come diceva mio nonno e il caro amico suo Orazio? O non ce n’è una affatto?

II – Consapevolezza autoriale
Beh, fin qui, tutte belle parole, ma non si quaglia. Ogni punto di vista è tanto vero quanto falso. Non ce n’è uno sbagliato e uno giusto. E non sarò certo io a criticare questo o quel principio. Ho largamente dimostrato quanto sia inutile lottare per una bandiera, ma che ogni giudizio è ben accetto e valido se tiene le manine dei suoi compagni.
Il fatto è che non si parla abbastanza (o se ne discute in senso lato) di due concetti che a me stanno a cuore e che, prima accennavo, fanno il mio sonno tanto leggero. Parlo dalla parte dell’autore di qualsivoglia opera, per restringere il campo, letteraria. E voglio paralare della Consapevolezza e della Responsabilità di quel tale.
Si disse che l’intenzione dell’autore fosse sacra ed io non voglio contraddire tutto ciò, come hanno fatto in tanti. Poniamo il caso l’autore in questione sia vivo e vegeto e ci racconti passo passo le sue intenzioni, i suoi obbiettivi, il pubblico a cui si rivolge e cosa vuole cambiare del mondo, se vuol cambiar qualcosa, eccetera. Mettiamo pure che, dopo aver scritto la sua bella opera, abbia pubblicato un libraccione corposo in cui spiega per filo e per segno tutte le varie significazioni, tutti i vari sensi ed i corrispettivi segni presenti nella sua opera. Insomma ci spiega tutto. Noi non ringraziamo, perché così facendo ha ammazzato la sua stessa opera come fanno gli strutturalisti, ma sappiamo tutto, dico tutto quel che c’è da sapere.
Ma l’autore è autore per poco, giusto il tempo di inventare, scrivere, sistemare e mandare alle stampe la sua opera. Poi, per tutto il resto della sua vita, sarà un lettore. Come tanti, come tutti, come noi. Così si scoprirà a rileggersi, a rileggere le sue opere, che è un po’ rileggere la propria vita, e a scovare cose nuovissime, altre e diverse significazioni, molteplici sensi che i corrispettivi segni, da lui stampati qualche tempo prima, hanno acquisito nello scorrere voluttuoso dei giorni.
E questo ce lo dimostra bene l’ingegnoso Borges quando riscrive con le stesse parole dell’hidalgo don Quijote e del suo scudiero Sancho.
E non è solo una differenza fra passato e presente. La lingua è viva, si muove, si contorce, muta, ma muta anche il lettore, la sua cultura materiale, le sue nozioni, le sue esperienze. Allora dove sta la Consapevolezza autoriale? Dobbiamo convenire che sia qualcosa che cambi, o dobbiamo riferirci all’autore come essere vissuto giusto il tempo di scrivere la sua opera e poi morto? Sicuramente è così, ma quel che conta è che la Consapevolezza autoriale riguarda solamente una piccolissima parte dei vari significati che l’opera può scaturire in ognuno. Soltanto la punta dell’iceberg è dominata dalla Consapevolezza dell’autore, sempre se questo vuole controllarla. Il resto è un infinito ghiacciolo sommerso che spetta al lettore svelare di volta in volta. Ma la sua è una fatica di Sisifo.
Del resto preferisco la letteratura che suggerisce e non racconta, che tace, a volte. E questo è un po’ il vizio di tutta la letteratura, anche di romanzi storici alla “Promessi Sposi” o alla “Ivanoe.” Perché scripta manent, e vabbé lo sapevamo già, ma quel che cambiano sono le parole nella testa di chi legge. E le lettere stampate su di un foglio sono delle finestre da cui traspare un mondo imprevedibile ed immenso. Ma poi la questione non è così manichea, il tutto è più sottile, più complesso. E lo sanno bene i lettori quanto cambino la loro vita i testi di autori-amanti, e quanto loro stessi cambino i testi in cui si immergono e di cui s’innamorano.
Faccio l’esempio di un’opera tanto amata dai critici contemporanei quanto odiata dai bimbi di questo tempo: “Alice’s Adventures in Wonderland” e “Through the Looking-Glass, and What Alice Found There” dell’iridescente Carrol. Nei due libri, ormai, poco del vecchio professore di matematica ottocentesco, un po’ dandy e stralunato, paroliere giocherellone, amante delle bambine intelligenti, poco o niente è rimasto, imbottiti come sono di letture filosofiche che vedono in Alice un Socrate in miniatura, di letture psicanalitiche che la trasformano in una bambina-fallo, di letture parodiche, sovversive, politiche, argute, complesse.
Tante cose belle si sono dette a proposito di Carrol e della sua Alice, ma quante di queste parole appartengono al diacono con la passione per la fotografia Dodgson. Nessuna!
Questo non comporta certo che siano da considerare pessime o irrispettose della memoria dell’autore. Assolutamente. Esse, anzi, sono importanti tanto quanto, se non più, dell’opera stessa, perché ne fanno parte e la completano. Perché, appunto, l’opera non sta nelle copertine rilegate, né nel cervello divenuto polvere di Dodgson, e neppure nelle singole idee meschine di ogni lettore che sbandieri per questa o quella fazione, ma nel contatto labile e libidinoso tra chi legge e ciò che è scritto. In quel contatto, istantaneo, formidabile, sublime, sta tutta la grandezza della letteratura. E se qualcuno mi dovesse chiedere cosa sia, appunto, la Letteratura direi quel contatto, imperscrutabile, dolcissimo, meraviglioso.
Che la letteratura debba evocare e stimolare il lettore lo sapevano bene anche l’ispanohablante Monterroso che scrisse il romanzo: “Cuando despertó, el dinosaurio todavía estaba allí” (“Quando si svegliò, il dinosauro era ancora lì”); ed Ernest Hemingway: For sale: baby shoes, never worn” (“Vendesi scarpette per bambini, mai usate”). I romanzi più brevi della storia, fin ora. Certo adesso qualcuno li avrà imitati in modo pedissequo, ma la loro idea era ben precisa: che il lettore immagini il resto!
Io faccio mia questa provocazione e la rimando con stizza ai vari saputelli perbenisti che tentano di scrivere per edificare il mondo. La loro morale vittoriana e deamicisiana non la sopporto, ma non gliela rispedisco indietro con tanti saluti, semplicemente sono i lettori, quelli attenti e curiosi, che la scardinano dal didentro. Ché anche nei dieci comandamenti ognuno può leggerci quel che vuole.
Quindi, dimostrato che l’autore non ha nessuna Consapevolezza di quel che scrive, se non di un microscopico quid limitato nel tempo e nello spazio, passerò a delineare i tratti di quell’altro concetto, per me tanto problematico: la Responsabilità autoriale.

III – Responsabilità autoriale
“Il linguaggio è una legislazione, e la lingua ne è il codice. Noi non scorgiamo il potere che è insito nella lingua, perché dimentichiamo che ogni lingua è una classificazione e che ogni classificazione è oppressiva. […] Parlare, e a maggior ragione discorrere, non è, come troppo spesso si ripete, comunicare: è sottomettere.”(Roland Barthes, Lezione inaugurale della cattedra di semiologia letteraria del Collège de France pronunciata il 7 gennaio 1977, Einaudi, Torino 1981, pp. 7-8)
Il vecchio Barthes, si sa, non aveva peli sulla lingua, e dopo aver fatto a pezzi l’autore, dichiarando che la sua morte sia stata una rivoluzione antiteologica, ripiegò sul lettore. Dopo averlo liberato dal dominio dell’autore, lo sottomise ad un’altra schiavitù: quella del linguaggio. Come già per l’americano Fredric Jameson in The Prison-House of Lenguage, anche per Rolando la lingua è una dittatura.
Si parte come al solito dal saggio Saussure, inventore della linguistica e della semiotica, che lasciava detto nel suo monumentale Corso di linguistica generale che il rapporto fra significato e significante fosse arbitrario. Arbitrario sì, ma non fuori dal mondo, come i seguaci del post-strutturalismo vorrebbero. La lingua segmenta, taglia, sceglie porzioni di realtà dal continuum spazio-temporale entro cui siamo prigionieri, da cui non si sfugge.
Dalle riletture di Barthes e Julia Kristeva del lungimirante Bakthin, che aveva visto nel romanzo le voci molteplici e cangianti della società, nasce il concetto tanto caro ai postmoderni di “intertestualità.”
Le nostre parole sono già state dette da altri, le nostre enunciazioni abitate, i nostri pensieri schiavi del groviglio intertestuale, del continuo ed inarrestabile citazionismo, manipolati dal tiranno Linguaggio. E non c’è nessun collegamento tra realtà e lingua, nessuna referenzialità, ma la lingua, anche quella d’ogni giorno, è tutta poetica, tutta autoreferenziale. In sostanza usiamo verbi di altri che non parlano del mondo ma di se stessi. Dunque quale responsabilità, per quel che si dice o si scrive, se siamo servi dell’espressione? Per Roland Barthes, nessuna.
Lasciate, invece, che capovolga la situazione: a parer mio l’intertestualità è libertà. Parto intanto dalla referenzialità: la lingua segmenta, taglia, sceglie, quel che vuole e in modo arbitrario dal continuum reale; alcune lingue selezionano dei colori e li inseriscono nei loro vocabolari ed altre altri colori, ma, citando Antoine Compagnon, sempre dello stesso arcobaleno si tratta. Ed inoltre “se l’essere umano ha sviluppato facoltà linguistiche, dopo tutto, lo ha fatto proprio per parlare di cose di ordine non linguistico.”( Antoine Compagnon,Il demone della teoria – Letteratura e senso comune, Einaudi, 2000, p.135)
Fermo restando che quest’ultima affermazione può essere opinabile, per la mancanza di studi adeguati alle spalle, resta il fatto che quella di Barthes è un’illusione autoreferenziale. La lingua, e la letteratura, parla anche della lingua, ma ciò non toglie che possa parlare pure del mondo. L’accento sull’autoreferenzialità non è una caratteristica propria della lingua, ma un suo atteggiamento, semmai. Vero è, come argomentava Rolando, che un testo, anche il più realista, non può essere usato come un libretto delle istruzioni, cioè, dalla sua lettura, non ne traiamo un riflesso della realtà. Ma questo non vuol dire che la lingua parli solo di se stessa o crei uneffetto di reale.
La letteratura è indeterminata ed indeterminabile, perché l’atto creativo è demandato al lettore che detta le regole del gioco e nello stesso tempo si lascia guidare, che è attivo ed è sedotto. Come in un amplesso, il lettore ed il testo sono due amanti, che giocano a fare l’amore fingendosi a volte dominatori intransigenti, altre volte succubi passivi.
Nella lingua comune, che non pretende di farsi arte, c’è meno finzione, più trasparenza. Il linguaggio non è più un ostacolo ma ponte. Questo perché soggiaciamo a determinati parametri convenzionali di cui non ci accorgiamo, come dice Barthes, ma proprio in funzione di tale trasparenza necessaria ad una comunicazione immediata.
Tutto questo nel testo letterario salta, non perché la lingua della letteratura abbia degli elementi linguistici diversi dalla lingua comune, che la rende più opaca, ma perché i lettori (e gli autori) si pongono nei confronti del testo, considerato letterario, in modo diverso, ossia problematico, inquieto, smaliziato. Il problema sta nel capire cosa fa di un testo arte. Che cosa è la letteratura? Ma per rispondere a questa domanda mi appello aldubbio iperbolico di Compagnon, lasciando di fatto in sospeso la questione.
Ritornando all’esempio del libretto delle istruzioni, l’opera dà delle indicazioni al lettore che autonomamente interpreta costruendo dentro di sé una storia, stratificata ed ipoteticamente infinita, che dipende da una serie di fattori ambientali, temporali, ideologici, che sono individuali. Si può discutere sull’effettiva libertà del lettore e dell’uomo in senso lato, cioè se sia schiavo di qualche altro fattore, ma la lingua vincola relativamente. Ci sono sensazioni, idee, pulsazioni, che seppure non troviamo le parole per esprimere (“ce l’ho sulla punte della lingua”) o per nostra dimenticanza o per l’assenza di tale termine nella nostra lingua, esistono e ne siamo ben coscienti. Sta poi ai lettori da una parte e all’artista dall’altra esprimere e costruire l’inespresso e obliare il superfluo. Così le lingue cambiano, si trasformano; noi crediamo siano morte, ma poi inaspettatamente riemergono, perché esse non si arrestano mai.
E l’intertestualità è libertà perché, anche se è vero che ripetiamo parole d’altri, semi-altrui come direbbe Bakthin, o meglio quasi-altrui visto che la lingua muta col correre del tempo ed il variare dello spazio, l’intertestualità è libertà perché tra tutte le parole già dette, con significati a volte differenti e lontani dalla nostra epoca oppure vicini e usati e abusati, ognuno può scegliere le sue, modificarle come vuole, creare significanti a cui attribuire nuovi significati. Questo ipoteticamente, e sempre se chi usa le parole ne sia capace, altrimenti nessuno si capirebbe. E mi viene alla mente il neologista Gadda, che del modificare verbi ha fatto un’arte, ma anche lui, pensandoci, era sottomesso alle costruzioni linguistiche dell’italiano, dei dialetti (romanesco, milanese, toscano, ecc.), dell’italiano arcaico, del latino, del greco, delle correnti letterarie del passato, ecc. Infine la nostra è una libertà più modesta, quella di poter scegliere per noi le parole dei dizionari e combinarle nemmeno tanto a nostro piacimento. E per il buon Rolando questa non si può certo chiamare libertà.
Le parole sono come sassi, però, e c’è chi le usa per ferire. La critica marxista ci teneva a dire che il linguaggio serva a veicolare il punto di vista, univoco e monologico, della cultura dominante e che l’intento centralizzante e autoritario dello Stato induca ad un’unificazione linguistica ed ideologica, necessaria per controllare un popolo. I testi approvati dal fascismo, i libri di scuola volti ad educare la gioventù littoria, i romanzetti proni all’ideologia del Duce, nel ventennio non mi sembrano essere tanto ingenui e schiavi di un linguaggio astratto. E dire che l’italiano del ventennio fosse stato una lingua squadrista è folle e non farebbe onore alla letteratura antifascista che veniva scritta sottobanco in quegli anni.
Anche se siamo asserviti ad uno strumento linguistico e alle sue leggi interne (che poi sono più o meno infrante nell’uso), non vuol dire che questo strumento non possa essere utilizzato consapevolmente. Ma questa consapevolezza, ripeto, è relativa e limitata, perché l’autore non controlla tutti i significati possibili. I significati vengono attribuiti ai vari significanti presenti nel testo solo e soltanto dal lettore e solo e soltanto nel momento esatto in cui legge. Così ogni lettura sarà diversa dalla precedente e da letture fatte da altri. Allora nessuna responsabilità autoriale, nessuna colpa.
Chi ha scritto i testi di propaganda fascista, per esempio, sapeva bene cosa faceva e cosa voleva, la sua intenzione sembra abbastanza chiara ed evidente (in altri casi l’intenzione dell’autore è tutt’altro che palese). Anche nell’ipotesi di una quasi assoluta certezza dell’intenzionalità autoriale, la responsabilità per ciò che quelle opere hanno indotto, non ricade sui loro autori. Questo perché l’intertestualità concede al lettore l’arma della scelta. Chiaro è, però, che chi più ha letto, di più autori e delle più svariate idee e tematiche, ha maggiore possibilità di scelta, maggiore libertà. Non è il caso per esempio di un semianalfabeta o un ragazzo costretto dal regime a determinate letture. In questi esempi vi è un’imposizione di forza dettata una dell’ignoranza, l’altra dalla censura. Qui la responsabilità di una comprensione inadeguata o di determinate azioni indotte da letture univoche, sta nella società che non mette a disposizione sufficienti mezzi culturali o nel disinteresse dell’individuo da una parte e dall’altra nella volontà coercitiva della dittatura.
E chi più ha letto meglio smaschera le storture, le dietrologie, perché compara e collega i testi, e le parole degli altri riemergono nel suo pensiero anche inconsciamente, ma una volta fatte proprie le può usare come mezzo di valutazione. Cioè acquisisce quel materiale linguistico che gli permette di costruirsi delle idee proprie e lo affranca dalla schiavitù del linguaggio. L’unico modo per uscire dal post-moderno, dall’incubo del labirinto intertestuale, dal vaniloquio citazionista e dalla servitù della lingua è conoscere i meccanismi del linguaggio, farlo proprio e piegarlo alla nostra volontà. Così solo potremmo ritornare ad esprimere il non detto, non alla ricerca di una romantica e nostalgica originalità, ma di un’autenticità che da tempo abbiamo perduto.

IV – Conclusione: serendipità
“Quando si scrive una poesia è frequente la serendipità: miri a conquistare le Indie e raggiungi l’America.” Così Andrea Zanzotto spiegava il suo lavorio estetico. La poesia come intuizione casuale e strepitosa. Non tanto quel concetto romantico, ormai tanto odiato e demodé, che vede nel poeta un semidio lungimirante ed incompreso, un po’ vate e un po’ maledetto, ma, la serendipità sta proprio ad indicare quanto sia fortuito il gioco della poesia.
Tutto è dettato dal caos. Dopo ci sono quelli che cercano le cause, le fonti, le influenze, gli ipogrammi, gli intertesti. A volte ci azzeccano pure, ma si tratta di … serendipità!
Poetare è come andare a piedi, sentenziava John Searle: si muovono i piedi, si sollevano le gambe, si tendono i muscoli, tutto ciò non richiede premeditazione, soltanto l’intenzione di camminare. Il poeta intende fare poesia, nient’altro. Non ne premedita i significati ulteriori, non ne conosce prima le sue eventuali evoluzioni. Quando scrive non controlla di dentro, sillaba per sillaba, le singole parole; il suo è un lavorio interiore, non tanto inconscio, quanto abbastanza inconsapevole.
Dietro questa inconsapevolezza, semi-incoscienza, i decostruzionisti hanno visto il complesso groviglio intertestuale, il già detto che ritorna. Che angoscia! Questa è la contraddizione post-moderna: se sopravvivesse soltanto il già detto, il già noto, le parole degli altri, non esisterebbero le belle parole nuove della critica, della scienza, della filosofia, della teoria. Non esisterebbero più le belle parole nuove di chi si crede umilmente in ritardo.

Giulio Foderà

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