martedì 20 novembre 2012

Piedi



 
Giugno 2011, Barcellona, Spagna.
‘Sta mattina mi trovavo alla Fundació Antoni Tàpies, in carrer d’Aragó 255. Una mattina d’estate come tante. Faceva caldo, ma ancora il fresco della notte prima non si era dileguato del tutto nelle scorribande mattutine d’auto e gente per le strade. C’era ancora quella dolce serenità vergine, non ancora violentata dal moto inconsapevole dei turisti o di qualche falso avventuriero.
Due passanti parlottavano in catalano: un vecchio con un barboncino bianco che correva dappertutto abbaiando, di tanto in tanto, al ronzare quieto d’una mosca e un uomo di mezza età con in mano una busta per la spesa.
C’era nell’aria, qualcosa di energico, di vitale. Voglio dire quel senso di tremore che invade il corpo quando fa un po’ fresco e quel brivido corre lungo la schiena. Avevo addosso proprio quel brio, quella sensazione stimolante e appagante. Adesso sembra strano, raccontato così su due piedi, o meglio su di uno solo, visto che sono in bilico su questo binario, ma provate a chiudere gli occhi per un istante, pensate a un prato verde, vasto, in cui ascoltare il suono della natura, e immaginatevi in mezzo a questo prato, scalzi, con nella testa solo la sensazione di leggerezza delle prime ore del mattino, e tutto intorno un frusciare sottile di fronde al vento, uno sfrigolare d’acque chiare da una cascatella o da una piccola fontana. Ecco, forse ho reso l’idea.
Avevo appena superato Casa Batlló, sinuosa, e svoltato l’angolo a sinistra per la carrer d’Aragó. Già da lontano avevo notato il nido d’acciaio dell’antica sede della casa editrice Montaner i Simon che accoglie, tra quelle mura rosso mattone, le opere pittoriche di Tàpies. Entrai.
Tutto lì sembrava a portata di mano, vicino, e inconsciamente fui costretto a pagare il mio biglietto, richiedere la guida audio e sentire in me le prime opere. Salutai la ragazza che stava al di là del bancone, col mio rozzo accento, in castigliano. Aveva due occhi neri da mettere in soggezione, ma appena scesi poco più
in basso con lo sguardo, le labbra tremule e il sorriso caldo mi lasciarono dentro quella rara pace che invano per anni ho cercato.
Si chiamava Paula e sapeva un po’ di tedesco. Mi raccontò qualcosa sulla sua vita, quel che si racconta a uno sconosciuto per presentarsi, il giorno stesso, in un bar del centro. Aveva ventisei anni e si era laureata in lingue straniere. Aveva trovato lavoro nel museo da due mesi. Non si lamentava. Nel parlarle capii quanta vita sconosciamo degli altri, quanto poco sappiamo delle persone che ci stanno intorno come di quelle lontane. E questo mi fece pensare a quanto poco so di me stesso, della mia vita, per essere arrivato fin qui e non essermi ancora accorto di un universo infinito che ruota vorticosamente ma soavemente, come l’andare d’una culla. Ed io, fermo, immobile, ho creduto di essere il baricentro di questo andare.
Presi le mie cuffiette con l’audio guida e mi addentrai nel museo.
<< Materia en forma de peu (materia in forma di piede, 1965), tecnica mista su tela. Tàpies respinge qualsiasi canone di bellezza ideale e tenta di rompere i suoi postulati di base scegliendo di proposito soggetti considerati tradizionalmente sgradevoli e feticisti: un ano che defeca, una scarpa abbandonata, un piede, e altri. L’immagine del piede è particolarmente rappresentativa in quanto Tàpies l’ha utilizzata già prima delle pitture materiche e ha continuato a utilizzarla fino al giorno d’oggi in forme diverse, dalla rappresentazione iconica di un solo piede fino alla raffigurazione dell’impronta dello stesso. Per lui, il piede è una cosa umile e passiva, legata più alla materialità della terra rispetto alla spiritualità del pensiero. Il piede in Materia en forma de peu (materia in forma di piede, 1965) non rappresenta una superficie tersa e attraente, ma piuttosto qualcosa di sporco e tumefatto, a quanto pare coperto da calli e cicatrici. E non sembra più essere “utile” e quindi si oppone a qualsiasi ideologia della produzione. Tàpies ha ribadito che la sua motivazione consiste in una rivalutazione di questi oggetti socialmente condannati al disuso. Il suo messaggio si basa sulla rivalutazione delle cose umili, di ciò che è ripugnante e materiale. La materia è l’elemento sostanziale della vita, per questo motivo la missione di intellettuali e artisti è quello di dare espressione a una prospettiva materialistica del mondo. >>
Di fronte a me si stagliava penetrante la tela. Sulla tela, impressa con forza, la sostanza densa e grave disegnava la forma di un piede che, enorme, occupava tutto lo spazio. Un piede interamente ricoperto di graffi, tagli, calli, cicatrici, forse ferite di battaglia. Pezzo di carne, un tempo viva, reso rifiuto, scarto, oggetto usato e gettato via, sudicio, infernale. La base ben piantata sul suolo duro, in uno spazio senza fine. Pressione agghiacciante. Forza. Morte.
Fu un’estasi. Non capii, in un primo momento, fino in fondo le parole della guida che pulsavano placide e nette, senza sentimento, dalla voce registrata e meccanicamente riprodotta d’un uomo sconosciuto che parlava la mia lingua, il tedesco.
Fui comunque rapito. Ero io quell’uomo che parlava, quel pittore, quella tela glaciale, quel piede. Sì, ero l’immagine stravolta impressa su quello sfondo grigio. Non era un quadro ma uno specchio. Ed ero senza senso, insignificante, solo, inutile oggetto gettato, immondizia, rottame, abbandonato, anche io. E lo sono ancora. E mi chiesi se magari avrei potuto riconoscermi anche in altre forme confuse che percorrono il mondo nella loro immobilità. Altre facce sconfitte che non chiedono altro che essere sepolte vive, dimenticate, distrutte.
Prima d’oggi, nel mio tempo inutilizzabile, restavo fermo e passivo in cerca di moto, con dentro la pulsazione folle del divenire. Questa mattina scoprii una vita diversa dal rincorrermi e poi fuggire nella stasi. E mi accettai uomo, materia inerte nel cosmo. Caducità cosciente.
Forse stava lì la chiave delle mie inquietudini, la soluzione al male di vivere che attanaglia i miei giorni, come di chiunque altro. Forse in quelle parole, in quella immagine, c’erano una vita e una bellezza autentiche, una verità incancellabile. Forse la mia via di fuga stava negli occhi neri di Paula rincontrati poche ore dopo.
Adesso è troppo tardi per chiedermi certe cose. Ormai ho scelto per me quel che era giusto scegliere. E sono qui, in equilibrio su questo binario, su di un piede solo, attraverso cui passa l’universo. Pianta sul ferro freddo, un passo dopo l’altro, come un funambolo, verso l’ignoto buio ancestrale della terra.
Dopo qualche minuto mi tolsi le scarpe e le lasciai di fronte al quadro. Indecenti involucri posticci nate per celare la sostanza più pura dell’uomo, per eludere il contatto sublime con la terra, con la vita. E uscii dal museo senza una parola in bocca da spendere, senza più nulla da rimpiangere o da seguire, per cui illudersi e soffrire.
Paula mi seguì come un segugio affettuoso, nonostante ancora non sapesse nulla di me. Trovò le mie scarpe, me le volle restituire. Non aveva capito nulla. Eppure aveva vissuto giorno dopo giorno in quello stesso luogo tanto rivelatore per me. Aveva guardato tutte le opere, letto i cataloghi, ascoltato le guide, conosciuto un giorno, per caso, Tàpies. Non aveva colto, però, l’insegnamento, il senso ultimo del nostro andare e venire, di questo procedere tentoni e senza meta per il mondo.
Ma in fondo anche io avevo vissuto immerso in questa natura multiforme e sincera ed ho perduto il suo messaggio profondo dissimulandolo ora in questo ora in quest’altro fantoccio: politica, economia, scienza, religione, arte. Fantocci immondi dietro cui si nasconde la vera essenza.
Al bar le spiegai le mie ragioni. Lei allora capì. Le si illuminarono gli occhi, le si accese un fuoco dentro. Era di fronte a me, al tavolo della caffetteria d’una traversa della Rambla. Si mosse piano in basso. Con una mano sciolse i laccetti dei suoi sandali e li sfilò dolcemente. Poi mi fece uno sguardo provocante. I suoi occhi brillarono più della luce viva di una fiamma. Con un piede mi sfiorò la caviglia, poi su fino al ginocchio e dopo nell’interno coscia, con una calma seducente, eccitante, micidiale. Ansimai, chiusi gli occhi, allargai le gambe e mi lasciai sedurre. Quando sentì che non riuscivo a trattenere più le mie pulsioni, si fermò, si alzò e corse verso il bagno, ancora scalza. Sorridendo appena, mi invitò a seguirla. E la seguii come se fosse stata l’unica cosa plausibile da fare. Appena fui dentro con lei, chiuse la porta a chiave e mi spogliò. Poi si voltò e si lasciò svestire. Portava un vestito leggero chiaro che seguiva le sue forme gentili ma generose, non portava la biancheria intima.
Allora le sfiorai i fianchi e la girai verso di me. Lei alzò la gamba destra e con il piede roseo e morbido mi carezzò la gamba e il gluteo. Si sollevò sulla punta del piede sinistro, io le strinsi il fondo schiena e la portai sul mio sesso. Quando fui dentro di lei, mi sussurrò all’orecchio con voce tremante e incerta “Uccidimi”. Venni dentro di lei.
Fu l’unica cosa giusta da fare, l’unica possibile.
Adesso sono qui su questo binario di metropolitana, freddo metallo sotto il mio piede nudo, linea 3, Zona Universitaria. Adesso sono qui in equilibrio sul mio piede nudo, passo dopo passo, con le braccia tese e in una mano un sacchetto di plastica sporco di sangue. Il caldo è insopportabile, l’umidità tremenda, il buio totale. Nel sacchetto il piede destro di Paula, mozzato, sanguinante, pallido, bellissimo. Alle mie spalle il treno velocissimo che grida.

Giulio Foderà

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