martedì 20 novembre 2012

L’Attimo Fuggente


“Andai nei boschi perché desideravo vivere con saggezza, per affrontare solo i fatti essenziali della vita, e per vedere se non fossi capace di imparare quanto essa aveva da insegnarmi, e per non scoprire, in punto di morte, che non ero vissuto. Non volevo vivere quella che non era una vita, a meno che non fosse assolutamente necessario. Volevo vivere profondamente, e succhiare tutto il midollo di essa.” (Henry David Thoreau).

L’adolescenza, la giovinezza. L’intermezzo sempiterno fra la fanciullezza e la maturità. Senz’ombra di dubbio rimane questo il periodo della vita in cui la forma mentis di un essere umano trova il suo percorso, si fortifica, plasma il giovane mutandolo in quello che diverrà in età adulta. Un riflesso dell’età in cui per la prima volta si tenta un approccio con le problematiche reali del mondo che ci circonda. Attorno a questo nugolo focale di questioni si svolge la vicenda raccontata nel film L’attimo Fuggente (Dead Poets Society, 1989) del regista australiano Peter Weir. Lo sfondo è quello di un collegio giovanile di formazione ultraconservatrice, teso a infondere nei giovani i valori meccanici di una cultura del rigore, della disciplina e dell’obbedienza. Trigonometria, fisica, latino ed economia sono il pasto quotidiano per forgiare intelligenze che popoleranno la società del domani. Banchieri, avvocati, medici. Al servizio della società per diffondere una vita omologata, fatta di caste chiuse asservite ad un corpo sociale bigotto e ipocrita. Poiché “a diciassette anni i giovani non devono assolutamente sviluppare un pensiero critico o imparare a ragionare con la propria testa”. La direzione impone, il vassallaggio approva. Ma in tutti le “prigioni intellettuali” può avvenire un punto di rottura. Ed in tal caso è il professore di letteratura Keating, interpretato da un magistrale Robin Williams, a scatenare il dissenso, la frattura fra istituzione e allievo.
La poesia, la letteratura diventa tutt’a un tratto un’arma contro la chiusura mentale. Ed è emblematico quanto una cosa potenzialmente innocente come leggere poesie in una grotta diventi invece l’innesco per la più fragorosa delle detonazioni. La Setta dei Poeti Estinti rappresenta il Cavallo di Troia di Omerica memoria pronto a scardinare i farraginosi ma implacabili ingranaggi del “sapere costituito”. In fondo AndersonDalton,Perry o Overstreet sono il prototipo della maggioranza di tutti i ragazzi del mondo, ne rappresentano una traccia. Sogni, lotte e idee vivono in loro e nel loro entusiasmo come in buona parte dei ragazzi della loro età. Anche noi abbiamo fatto parte di questo mondo. Il problema sorge, quando la libertà di pensiero sboccia nel posto sbagliato al momento sbagliato. Non vi è nulla di più pericoloso e di più destabilizzante di quello di una florida e candida capacità di riflettere. La sentenza più immediata è la soffocazione violenta dell’opposizione, mediante punizioni corporali che feriscono il corpo e allo stesso tempo violentano l’anima. Il tutto riflette il caos cosmico di una visione del mondo unilaterale e comoda, che avvista nella conservazione dell’arcaicismo l’unica risposta alla volontà di nuovo, di un senso di modernità spirituale che cozza decisamente con l’ordine a priori stabilito. Non vi è migliore catalizzatore per smuovere le acque della poesia e della letteratura, in questo infido abominio. Walt WhitmanHenry David Thoreau e William Shakespeare sono uomini di un’altra epoca, che affacciandosi con un occhio introspettivo e retroattivo sulla nostra epoca, c’invitano a cogliere l’attimo, a porre un legittimo atto di forza nel Carpe Diem. Fino allo strumento del teatro, indicatore dell’illusione idillica che combatte una realtà incongrua e parossistica, che volteggia scoprendo violentemente il velo di Maya di una tangibilità dell’essere totalmente rovesciata. Non c’è strumento indagatore migliore del Sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare a mostrare agli occhi dello spettatore la crudezza della realtà. In un attimo la commedia sul palco muta in tragedia al di là della scena, nella vita reale. “Se noi ombre vi siamo dispiaciuti, immaginate come se veduti ci aveste in sogno, e come una visione di fantasia la nostra apparizione” dice Puck/Neil Perry alla fine della farsa. Il sogno ha fine, e ha inizio il più burrascoso dei risvegli, il ridestarsi da un benevolo torpore, da un godurioso coma.
Il cerchio si chiude con la colonna sonora di questo capolavoro di fine anni ’80. Le melanconiche musiche diMaurice Jarre mettono a fuoco il corollario perfetto di un intreccio polifonico, dove le voci giovanili dei ragazzi assecondano le aspirazioni di futuri uomini che, a costo della sconfitta, ripudiano finalmente le vessazioni subite. Per concludere, possiamo solo aggiungere che questo memorabile capolavoro del cinema c’invita a riflettere, anche se non avesse ricevuto la sequela numerosa di premi che ha decisamente meritato, fra i quali un Premio Oscar per la migliore sceneggiatura originale di Tom Schulman, un Nastro d’Argento e un David di Donatello. Il nostro sguardo da semplice essere umano, che vive brevemente e che un giorno “smetterà di respirare, diventerà freddo e morirà” non sia mai disinteressato, spento, acritico o pedissequamente acquiescente. Tutti noi siamo capaci di urlare il nostro Yawp!  e di onorare quell’esortazione a cogliere l’attimo da parte del “Capitano” Keating. Non raccogliere questo guanto di sfida, crollando violentemente al suolo sotto i colpi delle idiosincrasie dell’esistenza quotidiana, sarebbe l’equivalente di unHarakiri.
Simone Bellitto

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