martedì 20 novembre 2012

The Modern Dance



Solo i veri capolavori sono capaci di addentrarsi nelle viscere del loro tempo al punto d’ infrangere la diga della contingenza storica e di affluire nella mortale immortalità della storia umana, fino a confondersi con essa. È questo il caso dell’Amleto, dell’Odissea, di Edipo, di “The Modern Dance”.
Anno di grazia 1974, il “Power of flowers” è solo uno sbiadito ricordo, gli hipsters hanno smesso di essere “brutti, sporchi e cattivi”; Jimi Hendrix è morto e i Jefferson Airplane è come se lo fossero. Finito Woodstock, finito il “peace & love”, finito il sogno di uguaglianza, fratellanza e amore libero. Tutto è tornato com’era: i ricchi sono tornati a mangiare caviale e i poveri sono ancora poveri, la guerra del Vietnam continua; ad un repubblicano (Nixon, annegato nello scandalo Watergate) succede un altro repubblicano (Gerald Ford);  Bob Dylan suona in frack e per gli Stones è ormai “solo Rock ‘n’ Roll”. Non mancano certo artisti ancora in grado di sfornare grandi capolavori (si pensi a “Rock Bottom” di Robert Wyatt)  ma essi restano sporadici picchi di un elettroencefalogramma che si appresta alla totale piattezza. La verità è che la musica psichedelica non è più in grado di rappresentare le nuove generazioni e anche quand’era in auge si preoccupava più di astrattismi e sofisticherie intellettuali  che dei reali problemi dell’uomo medio; i barocchismi e il dandysmo metrosessuale delle nuove correnti  “progressive” e “glam”, nate in Inghilterra alla fine degli anni 60, sembrano più adatte alle “fighette” di Oxford  che ad una società che sprofonda sempre più inesorabilmente nel pantano capitalistico-industriale. <<Serve una nuova musica, una musica che evochi le turbe psicologiche dell’individuo medio, capace di dar voce ai traumi delle “vittime” della moderna societa`>> questo pensava Peter Laughner giovane chitarrista di Cleveland, città operaia sulle rive del lago Erie. Conscio del nuovo sound punk proveniente da New York, Laughner fonda, insieme all’amico e cantante David Thomas, i Rocket from the tombs, riscuotendo un discreto successo nel circuito cittadino.
Nel ’75 la band incide i primi singoli “30 seconds over Tokyo”, “Sonic reducer” e “Life stinks” nei quali Laughner e compagni riversano tutto il masochismo, gli incubi, la desolazione della loro generazione: “don’t need a cure, need a final solution”, ” (…) I can’t blink, I need a drink, I can’t think ’cause life stinks”. Nel ’76 dopo parecchi cambi di formazione la band si scioglie, Laughner e Thomas si trasfericono a New York e fondano i Pere Ubu, gli altri membri della band danno vita ai Dead Boys. Nella Grande Mela si uniscono alla band il chitarrista Tom Herman, il bassista Tim Wright e il tastierista e sassofonista Allen Ravenstine. La nuova formazione desta subito sensazione: oltre all’originalità del sound, colpiscono, soprattutto, le esibizioni di David Thomas, il più atipico front-man della storia del rock: alto, grasso, goffo, sembra l’incarnazione stessa della maschera teatrale creata da Alfred Jarry. Dotato di una voce prodigiosa che riesce a spaziare dagli acuti di Marvin Gaye ai ruggiti di Howlin’ Wolf. Sul palco, il David Thomas fervente testimone di Geova, si trasforma nel grottesco profeta della nuova generazione, vomitando sul pubblico tutti i suoi dubbi esistenziali, i suoi complessi, le sue paranoie e le sue pulsioni schizofreniche. Sul finire del 1977 Peter Laughner lascia la band per dedicarsi ad un progetto solista, morirà qualche tempo dopo a causa di un’overdose di eroina. Perso per strada anche Tim Wright, sostituito da Tony Maimone, i Pere Ubu entrano in studio per registrare uno dei più grandi capolavori della musica del novecento. “The Modern Dance” <<è un affresco sconvolgente e drammatico della condizione operaia>>. Nella società industriale, la morte non è più fisica ma spirituale, l’angoscia non è più dovuta al timore di una nuova guerra o di un olocausto nucleare, ma all’alienazione e alla frustrazione causata dalle dinamiche economico-industriali. Come automi seguiamo meccanicamente il tempo della “fabbrica”, della produzione. È la “danza moderna” e stiamo tutti ballando. L’album si apre con  un suono lungo e stridente, il basso accenna tre accordi, pausa… Un selvaggio riff di chitarra annuncia l’inizio di “Nonaligment pact” travolgente e dissonante baccanale punk, un caotico vortice di distorsioni elettroniche, schitarrate scordate, nevrotici gorgheggi vocali.
Segue la title-track “The modern dance”. Ticchettio metallico e sbuffi di fumo battono il tempo, vociare di folla in sottofondo, è il ritmo della fabbrica, è la cadenza marziale della danza moderna; su di essa vibra, disperata e sguaiata, la voce di David Thomas. “Laughing”, a differenza dei primi due brani, inizia in sordina: batteria scarna, una dissonante improvvisazione di sax in sottofondo, solo il basso disegna una linea armonica, improvvisamente il brano esplode in una folle fanfara boogie. Il blocco centrale dell’album dimostra tutto l’eclettismo della band: un’alternanza di rock ‘n’ roll atomici (“Street Waves, “Life Stinks”, “Real World”) e contorti e alienanti raga lisergici di rumori, distorsioni e dissonanze (“Chinese radiation”, “Over my head”, “Sentimental journey”) che adornano i deliri vocali di David Thomas. Chiude l’opera “Humor me”, paradossale pezzo dove il cinismo beffardo del testo viene mascherato dalla giovialità, quasi clownesca, della musica. The Modern Dance è il rito funebre di un’umanità che s’appresta alla catastrofe, <<una pagana rappresentazione della fine>>. Sono passati più di trent’anni dalla pubblicazione di quest’album eppure esso riesce ancora a entusiasmare per la freschezza e l’originalità del sound, per lo humor cinico dei testi. The Modern Dance è un’opera dalla quale nessun amante della musica può prescindere.
Gabriele Felice

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