martedì 20 novembre 2012

Alienazione vs Vocazione



«La felicità della vita è il godimento della verità. » (Agostino, Confessioni, X, 23, 33)
 «Forse che la nostra ricerca ha come fine la tranquillità, la pace, la felicità? No, noi cerchiamo solo la verità, anche la più terribile e repellente…Qui si dividono le vie degli uomini: se vuoi la pace dell’anima e la felicità, credi, se vuoi essere un seguace della verità, cerca. » (Nietzsche, Lettera alla sorella, 11 giugno 1865)
«Prima fra tutte ho in odio l’espressione: “darsi la materia”. Una materia non si dà, non la butti addosso al prof di turno, non gli vomiti in faccia fiumi di parole per prendere il numero buono a fine esame. »
Quando iniziai a seguire il sentiero della verità, avevo circa sedici anni. In effetti il mio percorso cominciò prima, ma non ne ero consapevole. La mia professoressa di Filosofia, al liceo, se la cavava. Se ne andò alla fine di quell’anno. Precariato. Quello che mi piaceva del ragionare filosofico è quella tendenza ad andare oltre, come se ci fosse, e forse c’è, un velo nero da squarciare, o da scostare, in cui perlomeno sbirciare dentro! Come se l’ovvio non fosse tutto, piuttosto fosse solo il lato oscuro della realtà, un’ apparenza, come se ci fosse altro nascosto dietro, qualcos’altro, ma questa era pura intuizione, un sentire particolare, sicuramente vocazione.
Sì, io credo che ci si faccia filosofi nella stessa identica maniera in cui ci si fa preti.
In fondo i filosofi si sono occupati, in forma sistematica e matura (o forse genuinamente immatura), dei problemi che io stesso mi ponevo prima di farmi inaridire da un corso di laurea in filosofia.
Perché l’essere e non il nulla? Che più concretamente potrebbe formularsi nella seguente maniera: che ci faccio io qui?
E non dimentichiamo: chi sono io? Ma se dimenticassi non avrei neanche coscienza di ciò che sto scrivendo, dunque io sono memoria? Di qualunque cosa io sia fatto, non è che c’è un modo d’esser felici? Però, per esserlo, vorrei almeno sapere come le cose stanno. E non per sentito dire, voglio vedere con i miei occhi! Si, voglio godere della Verità.
La cosa più facile da spiegare all’interrogazione fu il relativismo dei sofisti. D’altronde il relativismo è una soluzione facile, quindi comoda, e la comodità è tentatrice delle menti pigre. Non c’è uomo che non sia più incline all’ozio che alla fatica. La fatica nasce da una necessità, solo in piccola parte da un istinto vitale.
Sì  in effetti si ostinavano a ripetermelo, che tutto è relativo, ma io non ci volevo credere. Lo dicevano a chiare lettere anche i fatti, ma io proprio non ce la facevo. Le cose facili non mi hanno mai gratificato. Non si deve far morire il Suchende che c’è in noi:
«Dal verbo suchen (cercare) i tedeschi fanno il participio presente, suchend, e lo usano sostantivato, der Suchende (colui che cerca) per designare quegli uomini che non s’accontentano della superficie delle cose, ma d’ogni aspetto della vita vogliono ragionando andare in fondo, e rendersi conto di se stessi, del mondo, dei rapporti che tra loro e il mondo intercorrono. Quel cercare che è già di per sé un trovare, come disse uno dei più illustri fra questi “cercatori”, e precisamente sant’Agostino; quel cercare che è in sostanza vivere nello spirito. » (Prefazione di Siddharta di H. Hesse, Massimo Mila, Ed. Adelphi)
Poi arrivò l’annuncio: Dio è morto. Chi al Liceo non ha subito il fascino della figura e della filosofia di Nietzsche? Mi spiace per chi non ha provato quel che ho sentito io, perché si è perso la sensazione che si prova quando finalmente qualcuno ti parla sinceramente e autenticamente, da uomo a uomo, e ti dice come le cose veramente stanno. O forse era solo quello che volevo sentirmi dire, ero già ateo da un pezzo.
Eppure, studiando in maniera più approfondita, cercando di scavare con le unghie nella terra dura del non senso, alla fine trovai tante perle rare, rilucenti di umana dignità. Certo, le unghie devono sanguinare se si vuol trovare qualcosa di autentico.
C’è stato mai filosofo che abbia scritto senza la minima speranza, anzi, senza l’esplicito o implicito motivo della ricerca della verità?
Platone non ha fondato la filosofia semplicemente nella tecnica, ma soprattutto nello spirito. Determinato, deciso a trovare il vero a tutti i costi e non un suo comodo surrogato. Mai disposto a sacrificare l’onore del Suchende ai vantaggi della vita comune, che si accontenta di poco e di quel poco fa la sua felicità. E sì che l’uomo è un animale modesto, ma lo è solo perché coltivare la propria crescita morale e intellettuale risulta estremamente faticoso, quando è ormai abitudine una sorta di intorpidimento mentale. La società lascia credere che sia inutile pensare all’interno della sua organizzazione burocratica.
In ogni caso non è per discutere di questo che scrivo. É per contrapporre, alla luce del vostro sguardo critico, una situazione di fatto a uno stato e atteggiamento d’animo. Lo stato d’animo è quello del fanciullo ingenuo che, iscrivendosi a un Cdl in Filosofia, si aspetterebbe di passeggiare in giardino discutendo di filosofia. La situazione di fatto, d’altra parte, è già ben espressa dalle parole di qualcuno sicuramente più autorevole di me. L’aforisma che segue fa parte di una raccolta, Cattivi pensieri, scritta da Paul Valéry: «Falsi filosofi – Quelli generati dall’insegnamento della filosofia, dai programmi. Essi vi apprendono problemi che non avrebbero inventato e che non sentono. E li apprendono tutti! I veri problemi di veri filosofi sono quelli che tormentano e intralciano la vita. Il che non significa che non siano assurdi. Se non altro, però, nascono vivi – e sono veri come le sensazioni. »
Questa è la situazione di fatto, cioè la realtà di un sistema universitario che non educa al filosofare, ma allo studio manualistico delle problematiche. C’è del buono in questo, ma anche il grandissimo rischio di inaridire la voglia di ricercare. Non mi serve un elenco di nomi e problematiche, mi serve capire il perché dovrei pormele e a che aspetto della mia vita, individuale o nel senso collettivo, possano contribuire. Soprattutto non mi piacerebbe diventare parte di un esercito di neolaureati che ritengano cultura la conoscenza delle ipostasi di Giamblico e poi non saper approfittare dello studio per migliorarmi. Inutile studiare se poi non so neanche come e perché funziona il frigo di casa mia. Rispondendo a questa domanda si arriva tranquillamente alle leggi della termodinamica: immaginate la complessità del rispondere a domande inerenti se stessi e le proprie relazioni con gli altri! Ma noi sappiamo solo che abbiamo la nostra routine e dobbiamo perseguirla. Bisognerebbe studiare meglio, con cura, attenzione, calma, alla ricerca dei come e dei perché: attitudini che oggi ci sono negate dalla grossolana rapidità cui la preparazione universitaria ci costringe.
Ma forse questo è solo lo sfogo di qualcuno che si aspettava un percorso da una laurea in filosofia e invece assiste quotidianamente allo smercio della cultura, che adesso si fa in pagine e crediti, e alle deviazioni psicologiche e linguistiche che questa impostazione crea. Prima fra tutte ho in odio l’espressione: “darsi la materia”. Una materia non si dà, non la butti addosso al prof di turno, non gli vomiti in faccia fiumi di parole per prendere il numero buono a fine esame. Piuttosto occorre un pensiero fertile, nuovo, che parta dal fulcro di ogni sano domandare, la propria persona. Siate egocentrici. «Se per coltivare l’intelligenza c’è uno strumento più importante degli altri, è quello di studiare i fondamenti delle proprie opinioni» (J.S. Mill, La libertà). La domanda da farsi è: che problemi sento? Quali sono i miei problemi? Ma non in senso strettamente individualistico, per miei problemi intendo dire: per cosa riesco ancora a indignarmi? Di cosa veramente mi importa? C’è qualcosa che credo mi riguardi anche se non è rivolta direttamente verso di me? Vi siete chiesti perché è sempre più difficile arrabbiarsi genuinamente per qualcosa? Educati al pluralismo delle opinioni – la cui estrema conseguenza è il al relativismo della verità – abbiamo trasformato la tolleranza in uno stagno fangoso in cui tutti i rospi possono gracidare in pace purché non interferiscano con i nostri affari.
Non era questo il senso della tolleranza pensata dai veri liberali, inoltre come scrive Marcuse: «Il telos della tolleranza è la verità. ». Torniamo a Mill: «La forza mentale e quella morale, proprio come la forza muscolare, si sviluppano soltanto se le si usa. Quando si fa una cosa solo perché la fanno gli altri, non mettiamo in esercizio le nostre facoltà: né più né meno di quando si crede a una cosa solo perché ci credono gli altri. »
Questa vuole essere un’esortazione a non lasciarvi trascinare dalla corrente, al non abbandonarvi alle dinamiche massificanti del “darsi le materie” e dello studio d’occasione, a non lasciarvi trasformare dalla fattualità del sistema in cui siamo inseriti in automi ma a ingranare la marcia e pensare tramite non-luoghi, utopie, sogni. Solo questi sono il motore trainante dell’essere umano degno di questo nome, solo il ragionare di cose che ancora non sono ma possono essere apre nuove visioni del mondo, ed è esattamente questo che ci serve, nel nostro piccolo così come nell’insieme.
Piero Tantino

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