martedì 20 novembre 2012

Teoria sulla definibilità dello spaziotempo, di Natale Anastasi



Il tentativo qui esposto è di fare una breve analisi del problema sullo spaziotempo attraverso e secondo i principi leibniziani dell’identità degli indiscernibili (se x e y godono delle stesse proprietà allora sono identici) e dell’ indiscernibilità degli identici (se x e y sono identici, allora possiedono le stesse proprietà) da cui:  ”Eadem sunt, quorum unum potest substitui alteri salva veritate” (le cose delle quali l’una può essere sostituita dall’altra mantenendone intatta la verità, sono le stesse). Cercherò di andare oltre il dualismo spazio/tempo, per analizzare come spazio e tempo, in determinate circostanze e prospettive dimensionali, coincidano, manifestandosi come differenza epistemologica e non ontologica, perché appunto riguardanti lo stesso principio. E’ la differenza tra la vista del punto e il punto di vista, insomma.
Lo spazio infatti è un'insieme di percezioni di cui la semantica non sintetizzabile in accezioni univoche; e pertanto la sua espressione non racchiude, ma anzi moltiplica le varie forme di luoghi e non-luoghi da cui dipartire i possibili significati. La Realtà, il Mondo, in cui l’uomo è immerso ed attraverso cui esplica sé nella sua dinamicità sono pertanto concrezioni, grumi di significati, che potrebbero schiacciare e non includere le plurivocità che le dimensioni percettive implicano. Intendo perciò indicare da adesso la sostituzione di questi "monolitici significanti" con termini più dialettici: le realtà, i mondi. 

Dall'infinitamente grande all'infinitamente piccolo è inevitabile che vi siano infinite sfumature di colore che i nostri sensi possono percepire o meno in una prospettiva sempre diversa rispetto al passato e anche diversa rispetto al modo di percepire rispetto ad un altro soggetto. Lo spazio perciò può essere inteso solo in termini di condizione attraverso cui l’essere- nel- mondo (In-der-Welt-sein) può muoversi, esercitando la propria libertà,  e quindi esistere?
Secondo Heidegger infatti: “l’uomo non fa lo spazio, lo spazio non è neanche un modo soggettivo dell’intuire; non è però neanche alcunché di oggettivo come un oggetto. Piuttosto, lo spazio, per fare spazio come spazio, necessita dell’uomo. Questo misterioso rapporto, che non concerne solo il riferimento dell’uomo allo spazio e al tempo bensì il riferimento dell’essere all’uomo (evento)” (da Corpo e spazio, osservazioni su arte-scultura-spazio, p. 37).
Ma cosa vuol dire tutto ciò?  Se non venisse messo in dubbio che l’uomo non potrebbe creare lo spazio, ma solo modificarlo, riplasmando  - o distruggendo – lo statuto ecologico della realtà empirica, andrebbe però da porre in analisi se a livello ontologico (essenziale, l'insieme di aspetti caratteristici senza i quali non si può esistere) ed epistemologico (inteso in tal caso come insieme di condizioni secondo cui di "qualcosa" si ha scienza) lo spazio “non è neanche un modo soggettivo dell’intuire” nel quale per intuizione si intende la conoscenza immediata del fenomeno , tramite la sensibilità delle percezioni e la spontaneità dell’intelletto (noesi) che elabora il contenuto dalla percezione del dato fenomenico .  
A mio avviso infatti per spazio si intende definizione: inizialmente, è il non considerato tra due o più enti. Per visualizzare lo spazio però occorre che almeno uno dei due sia sempre il soggetto interpretante il fenomeno. Esso, infatti, per sussistere nella mente, viene involontariamente staticizzato a ente non rilevante, quindi a ciò che si può definire logicamente come “vuoto”, o incognita preriflessiva . Il granello di sabbia nel deserto.
Quindi lo spazio è la differenza ontica tra un ente x e un ente y, ossia tra due enti logicamente sussistenti, in cui questa differenza assume il carattere di sussistente logico non esistente. E’ pertanto la verbalizzazione del tempo della coscienza. Proprio perché la mente, nei vissuti di coscienza (Erlebnisse), non percepisce solo dati quantitativi, secondo un accordo di 95Hz/80Hz/80Hz nel sistema corticale trino che dà origine al colore rosa, ma dati qualitativi (o qualia sensoriali, vd. Churchland), emozionali, temporali, simbolici, che la mente genera dalla percezione del fenomeno. Su quest’argomento Frank Jackson pone l’esperimento mentale della neurologa Mary che conosce tutto quello che andrebbe conosciuto a livello fisico sui colori ma che vive da sempre in un mondo di bianco e nero. Uscita dal suo ambiente, Mary fa l’esperienza qualitativa dei colori: ciò lascia cadere la teoria fisicalista. Questi elementi quindi, contenuti in enti particolari singoli ed immediati, il corpomente li astrae, sul piano del linguaggio proposizionale logico-formale, in un campo di esistenza, stabilendo i riferimenti dell’identità e della differenza, che determinano la non compenetrazione del termine di riferimento all’ente x con il riferimento al termine y .
Ciò vuol implicare che lo spazio è simbolo della distanza quantica, primordiale, del dualismo tra il mediato temporale e l’immediatamente concepito, pre-conscio del temporale, dei beat scanditi dal metronomo insomma, ma è soprattutto la differenza di carica, di potenziale tra i due . Il dualismo ha però una natura statica, non dinamica, quindi è soltanto frutto della logica proposizionale. Lo spazio quindi, volgarmente, è il concetto comune linguistico che si usa per evitare che i due beat x e y, linguistici perché logicamente codificati, coincidano e si fondino in un’unità di solo x o di y .
Se immaginiamo difatti di avere davanti ai nostri occhi un metronomo, vedremo la lancetta che oscilla da sinistra verso destra e da destra verso sinistra e che segna il beat (il colpo) appena arriva all’estrema destra e all’estrema sinistra. Chiamiamo ora l’estrema destra “x” e l’estrema sinistra “y” e posto che il metronomo non segnala il beat se la lancetta non arriva a toccare una delle due estremità, quando la lancetta ha appena finito di battere il beat, essa si dirige verso l’opposta estremità e in quell’arco di tempo vi è lo spazio quantico che segna la distanza quantica tra x e y perché attraverso la nostra concezione di spazialità quel momento di silenzio tra x e y è il momento che evita la compenetrazione in x di y o di y in x. Diversamente sarebbero lo stesso suono invece che due distinti. Il momento che non è segnalato dal beat invece, non interessandoci, lo lasciamo indefinito tra x e y . Questo è, secondo me, lo spazio.
Ponendo il discorso inverso, cioè che ci debba interessare il momento di silenzio tra x e y, allora il punto di riferimento si sposterà, generando invece di x e y , solo un suono indifferente , di sfondo, del tutto irrilevante. Il silenzio assumerà invece la potenzialità quantica perchè su di esso la nostra mente si è concentrata.
Ciò ci rimanda alla distinzione husserliana tra impressione originaria, ritenzione (del passato) e la protensione (verso il futuro) . La mente e l’intenzionalità quindi coincidono.
Lo spazio è quindi il principio d’identità (x = x) , di non-contraddizione (« È impossibile che il medesimo attributo, nel medesimo tempo, appartenga e non appartenga al medesimo oggetto e sotto il medesimo riguardo» vd. Aristotele), sostenuto dal principio di non compenetrabilità dei corpi .
Questa è però una differenza quantitativa che rimanda a quella qualitativa del tempo interiorizzato (la “durata” secondo Bergson, in “Saggio sui dati immediati della coscienza”, II cap.), che scorre e che segna la differenza con il tempo scandito dagli orologi. Ma superiamo anche la concezione di durata bergsoniana per accedere alla differenza tra l’esistenza degli enti interpretanti, degli eventi accadono e dei processi dei flussi di coscienza che scorrono, con il sussistente immobile degli enti concettuali x e y. Lo spazio esiste quindi solo dalla messa in relazione di enti, in un campo di esistenza ordinato e quantitativamente analizzabile a livello empirico.
Non si dà spazio senza un luogo occupato da enti. E’ un’equazione di primo grado, o di secondo grado. Tre incognite annullano lo spaziotempo. Proprio perché senza un essere umano che osserva il fenomeno, il fenomeno esisterebbe a prescindere, ma non sarebbe più analizzabile. Anche poi ammettendo di trovarsi in una stanza vuota, buia, immobile, il nostro Io contemplerebbe il fenomeno dello spazio, come possibilità di movimento, ma anche come essenza esterna e non identificabile con l’Io stesso. Inoltre, se in questa stanza noi pensassimo di dover contare un insieme di pecore al pascolo, le immagineremo immerse in uno spazio, in attimi scanditi nel tempo percepito dalla coscienza.  Con il linguaggio immediato quindi formuliamo lo spazio tra identità e differenza , in un primo livello, mentre sul piano mediato e riflessivo, in un secondo invece, si accede all’esserci temporale. Quindi lo spazio non sussiste prima del tempo, ma è solo una cognizione immediata di ciò che appare in realtà poi non essere: è ravvisabile come il fenomeno della parvenza . Ed è un segno simbolico, statico, che non implica una coscienza matura per analizzare il principio di funzionamento della capacità computazionale della mente nel calcolo logico. Quindi ci serviamo di questa prima cognizione dell’esserci per mettere in evidenza la differenza ontica tra potenziali e mezzi ontici, che aprono la strada all’analisi ontologica .
La computazione è quindi la capacità linguistica, logica, degli esseri umani . L’essenza del numero è invece la classe di tutte le classi. Il numero è però anche, per la nostra comunità linguistica, codificato nel segno con riferimento quantitativo del numero arabo, statico, espresso nel linguaggio spaziale, preriflessivo, non ancora consapevole della propria temporalità, di una particolare unità o molteplicità di dati fenomenici della coscienza. Nel calcolo aritmetico quindi non sembra di poter sostenere che lo spazio sia totalmente escluso: la memoria procedurale che permette di tenere a mente i numeri da sommare deve necessariamente spazializzarli in un prima ed un dopo, intervallandoli nel tempo, in modo da rendere logicamente accessibile il contenuto su cui operare la sintesi (2+4=6).
Il tempo risiede quindi nella dimensione e nella domanda ontologica dell’esserci, nella ricerca dell’Essere; è il meta-linguaggio che supera il linguaggio e la logica dell’esserci. Lo spazio è invece l’astrazione del dato, è il linguaggio della scienza ontica.
“Il tempo è il numero o la misura dello spazio in movimento, e del riposo, secondo il prima e il dopo (del movimento stesso) ” (Aristotele, IV libro della Fisica cc.10-14)
Natale Anastasi

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