martedì 20 novembre 2012

L’UNIVERSITÀ (S)VALUTATA


Una delle caratteristiche meno percepite del baratro nel quale l’Italia va precipitando è l’uso delle parole non per comunicare ma per nascondere.

Un caso evidente è quello dell’Università, per la quale da anni si parla di autonomia mentre la realtà è che il governo centrale decreta, stabilisce, condiziona e soffoca. Il primo strumento di questa strategia è ovviamente il danaro, l’erogarlo, il rifiutarlo. Agli Atenei è stata imposta -in pratica da un giorno all’altro- una riduzione pari al 30 per cento del Fondo ordinario di finanziamento, che costituisce la risorsa economica principale delle Università. Questo ha comportato l’immediata riduzione dei servizi e l’incremento delle rette che gli iscritti devono pagare. Risultato: biblioteche e laboratori chiusi, vigilanza diminuita, lavoratori a tempo determinato licenziati con un preavviso di poche settimane. Ho accennato a questi dati di fatto perché nessuna valutazione delle riforme giuridiche riguardanti l’Università può trascurare l’intenzione del potere -e cioè dei concreti governi che si susseguono- di soffocare l’Università pubblica facendole mancare l’ossigeno finanziario.
In questo quadro acquistano il loro vero significato termini e acronimi quali «3+2, CFU (Crediti Formativi Universitari pari a 25 ore ciascuno), debiti formativi, GEV (Gruppi Esperti Valutazione), VQR (Valutazione della qualità della ricerca)». Le parole sono tutto. E quelle che ho indicato sono alcune delle espressioni dominanti nel linguaggio accademico contemporaneo. Una vera e propria neolingua imposta alle università italiane ed europee da una penosa scimmiottatura delle modalità e delle tradizioni degli Stati Uniti d’America. Paese, è bene ricordarlo, dove a pochi e costosissimi centri di eccellenza si contrappongono migliaia di università che valgono assai meno di un buon liceo italiano.
Un linguaggio contabile, bancario, aziendalistico che si pone l’esplicito obiettivo di formare non dei cittadini pensanti ma degli impiegati e dei funzionari del pensiero unico mercantile e capitalistico; una realtà che ha danneggiato prima di tutto gli studenti, costretti ad accumulare “crediti formativi” come fossero punti del supermercato, studenti sempre più trafelati nello studio e dunque inevitabilmente superficiali nella preparazione.
Adesso tocca ai docenti. Entro il 25 marzo 2012, infatti, ciascun professore e ricercatore ha dovuto indicare da uno a tre fra i lavori pubblicati dal 2004 al 2010, i quali saranno sottoposti ai GEV, dalla cui valutazione dipenderanno i futuri finanziamenti di ogni Ateneo.
Non è forse tutto questo un principio di giustizia e di riconoscimento del merito di chi ha ben studiato, scritto, fatto ricerca? Lo sarebbe, certo, se i criteri fossero trasparenti, rispettosi della specificità delle diverse aree del sapere, miranti a incoraggiare gli studi più rigorosi, innovativi, non conformisti. E invece la realtà è esattamente l’opposto. L’obiettivo è discriminare le Università in relazione all’acquiescenza dei loro membri al potere accademico, politico, editoriale.
Lo si può comprendere meglio leggendo alcuni documenti di diversa fonte, dai quali riporto dei brani invitando a una lettura integrale tramite i link indicati alla fine di ogni citazione.

«Che cosa sta succedendo in questi giorni nell’Università italiana? In base alla “riforma” Gelmini (assunta in toto dal governo Monti) si è aperto, nel sacro nome del Merito, il capitolo della Valutazione, pomposamente denominato Vqr (“Valutazione sulla qualità della ricerca”). […]
Aree e linee di studio, in taluni casi intere discipline, saranno discriminate, con gravi limitazioni, di fatto, della libertà e del pluralismo. Non solo. Siccome la Valutazione si muove sulla base di sistemi a numero chiuso (per esempio, si stabilisce in partenza il rapporto percentuale tra le riviste di fascia A e quelle collocate nelle fasce inferiori), si produrrà un esito di frustrazione, non di stimolo: poiché è materialmente (e “politicamente”) impossibile che tutti pubblichino su riviste A, agli altri (spesso esclusi perché estranei al mainstream o per ragioni di non-appartenenza a forti cordate accademiche) si trasmetterà un messaggio molto chiaro: “non vale la pena che vi affatichiate, tanto…”. Qualcuno potrebbe pensare che si tratti di puro autolesionismo, cioè di stupidità: alle università e al governo dovrebbe interessare stimolare l’attività, non già deprimerla. Ma sarebbe – temiamo – un’obiezione ingenua. Come dicevamo, la Valutazione è un’arma; il proposito è (anche) quello di neutralizzare voci scomode (o soltanto periferiche), concentrando risorse e poteri nelle mani di ristrette cerchie di “ricercatori eccellenti”. Da questo punto di vista, svalutare (e scoraggiare) è utile quanto premiare. Tanto più che l’Università pubblica è costosa e deve “dimagrire” – sappiamo a vantaggio di chi. […]
Aggiungiamo qualche osservazione in merito alle conseguenze micidiali (e di dubbia legittimità) che questo sistema genererà a danno della piccola e media editoria. Far valere (di diritto o di fatto: come dicevamo, una caratteristica di tutta questa faccenda è la scarsissima trasparenza proprio in merito ai criteri di giudizio) una graduatoria tra le case editrici significa, in sostanza, impoverire il panorama culturale dell’intero Paese e renderne agevole la colonizzazione da parte di poche imprese private (e dei potentati accademici). […]
In sostanza, alcuni rispettabili imprenditori privati potrebbero presto diventare i Signori della ricerca scientifica italiana, poiché dalle loro insindacabili decisioni dipenderà la sanzione della qualità delle pubblicazioni, con tutte le conseguenze che da ciò discendono. E se a loro la Valutazione conferirà il tocco di Creso (qualsiasi schifezza avranno deciso di pubblicare potrà miracolosamente trasformarsi in una pietra miliare del progresso scientifico), una pietra tombale verrà invece posta sugli “sfigati” editori piccoli e medi, ridotti al rango di diffusori di merce di scarto.
Questi sono, ci pare, alcuni prevedibili – e già, in parte, attuali – effetti perversi della Valutazione. Su di essi (nonché sui gravi conflitti d’interesse inerenti a giudizi formulati da soggetti inclusi nella platea valutata) varrebbe la pena di confrontarsi prima che un sistema varato con il pretesto della meritocrazia sancisca definitivamente l’emarginazione di posizioni eterodosse e lo strapotere di grandi editori e lobbiesaccademiche».
(Alberto Burgio – Maria Rosaria Marella, «Università, la Valutazione sbagliata», il manifesto, 21.3.2012 ).

«Contro l’ERIH e la “valutazione dei tecnocrati” che secondo alcuni esso incarna, si assiste in questi giorni al capitolo forse più qualificato della continua, esasperata e taciuta serie di contestazioni che serpeggia da anni in Europa nella ricerca e nella formazione superiore. Dopo l’“onda” italiana e le rivolte sociali in Grecia, di cui l’università è stata ancora una volta epicentro, ecco in Gran Bretagna l’“Independent” del 22 gennaio dedicare una pagina indignata ad accusare i meccanismi bibliometrici del RAE di favorire tra l’altro “miopia intellettuale [...], guasta convenzionalità [...], e disonestà generalizzata”. Negli stessi giorni l’ERIH è stato costretto a ritirare la sua classificazione delle riviste, dopo che i direttori di 61 riviste internazionali di storia della scienza e di filosofia hanno dichiarato che avrebbero aperto il prossimo numero con un editoriale contenente la richiesta di non indicizzarle: “Non vogliamo avere parte in quest’attività pericolosa e sbagliata” (in “un universo in cui tutto” è destinato a “dar luogo a [...] hit-parades”, come si legge nell’editoriale dell’ultimo fascicolo della “Revue philosophique”). Ancora, è di questi giorni in Francia una rivolta profonda –di cui qui non giunge notizia– contro le nuove leggi Sarkozy sull’università, incentrate sulla valutazione. Il “Nouvel Observateur” del 14 febbraio intitola: Une période de glaciation intellectuelle commence»
(Valeria Pinto, Sulla valutazione; Atti di un Convegno svoltosi a Napoli nel 2009)
«Quanto tale immagine sia “realistica” lo si può constatare osservando le liste prodotte per Filosofia teoretica (ricavabili dalle attribuzioni tra parentesi nella lista unificata), che confermano tutte le precedenti riserve espresse dalla SIFIT [Società italiana di filosofia teoretica, n.d.r.] sulla possibilità di produrre ranking sensati nei termini imposti alle Società. Si tratta di una selezione ampiamente arbitraria, dove si segnalano presenze incongrue e nella quale, viceversa, non sono neppure presenti riviste che ospitano una ampia percentuale della produzione dei docenti del settore. Il risultato, oggettivo, è l’assenza di rispetto per le pratiche riconosciute in una comunità scientifica. […] 
Di fronte a questo stato di cose, la SIFIT non riconosce validità, anche solo orientativa, a quanto indicato nel documento GEV e respinge come una grave distorsione l’uso degli strumenti proposti, del tutto inidonei a favorire una valutazione fondata».
(Comunicato della SIFIT sui “Criteri” del GEV area 11, 29.2.2012)
A proposito della VQR (Valutazione della qualità della ricerca) in atto, il collega e amico Dario Generali mi ha inviato una mail che esprime con maggior chiarezza quanto intendo dire:
«Non posso, anche in questo caso, che concordare pienamente con la tua lucida analisi del tentativo ideato dal governo berlusconiano, e ora messo in atto da quello di Monti, per operare un controllo centralistico sulla ricerca e sul reclutamento dei ricercatori e dei docenti universitari.

I criteri di valutazione sono semplicemente insensati e, per esempio, forniscono sistematicamente punteggi sempre più alti agli studiosi di materie scientifiche rispetto a quelli dediti alle discipline umanistiche. Scaricano l’onere della valutazione dei titoli dei candidati ai concorsi sulle selezioni operate dalle redazioni, quando è ovvio che ci possono essere contributi di notevole valore anche su riviste meno note e stupidaggini su quelle titolatissime.
Di fronte allo scandalo, ormai difficilmente sostenibile, di concorsi in cui prevalgono candidati con un decimo o un ventesimo delle pubblicazioni di concorrenti invece marginalizzati, si sta trovando il mezzo per ridurre finalmente al silenzio chi pretende di affidare la propria carriera più ai propri meriti e alle proprie pubblicazioni che alle mafie accademiche, che ben controlleranno le redazioni delle riviste che autoproclameranno di livello A.
Per norma, nei concorsi, i commissari dovrebbero prendere visione dei titoli di tutti i candidati e dare una valutazione a ognuno di essi. In realtà è pratica diffusa che i commissari non leggano i titoli presentati (tra l’altro, essendo membri della comunità scientifica, già dovrebbero conoscerli) e che ritengano ovvio di non doversi sottoporre a un tale “fastidio”. La cosa è scandalosa ed è un po’ come se un insegnante si ritenesse autorizzato a non leggere i compiti dei suoi allievi, attribuendo ad essi delle valutazioni sulla base delle sue convinzioni pregresse.
Con il sistema delle valutazioni delle sedi di pubblicazione, si sancirà il diritto dei commissari a non conoscere i titoli dei candidati che devono giudicare, poiché si dovranno solo attribuire punteggi in automatico, a seconda di dove i contributi sono stati editi, con la conseguenza che un’idiozia pubblicata su una rivista nota varrà legittimamente molto di più di un contributo innovativo e di valore uscito su una rivista classificata come di minor valore.
Credo che i fatti parlino da sé e che non servano ulteriori commenti»

Altri due docenti universitari -Piero Bevilacqua e Angelo d’Orsi- hanno redatto un appello rivolto al ministro Profumo e a Monti dal titolo L’Università che vogliamo. Appello che sta ricevendo adesioni molto numerose -anche da parte di docenti dell’Ateneo di Catania- e che costituisce la base di un incontro nazionale previsto a Roma per il 31 marzo 2012. L’ho sottoscritto anch’io poiché mi sembra che descriva con realismo la situazione in cui ci siamo cacciati e proponga delle vie d’uscita.
Vi si stigmatizza, infatti, la progressiva burocratizzazione: «Si sta scatenando negli atenei la definizione dei “criteri di valutazione”, al fine di misurare la “produttività” scientifica degli studiosi, come si misura una qualsivoglia quantità calcolabile. Anche per questo le Università europee sono sotto l’assedio quotidiano di un flusso continuo di disposizioni normative, che soffocano i docenti in pratiche quotidiane di interpretazioni e applicazioni quasi sempre di breve durata. Sempre minore è il tempo per gli studi e la ricerca, mentre la vita quotidiana di chi vive nelle Facoltà –docenti, studenti, personale amministrativo– è letteralmente soffocata da compiti organizzativi interni mutevoli, spesso di difficile comprensione, quasi sempre pleonastici». Un fenomeno che gli studenti ben conoscono, dato che ogni anno vengono loro imposte modifiche anche radicali ai piani di studio, le quali creano una confusione enorme che sono i ragazzi a scontare, prima e assai più che i docenti.
 Si condanna il cosiddetto «processo di Bologna», voluto nel 1999 dall’allora ministro Luigi Berlinguer (di infausta memoria) e sostenuto poi dai suoi successori. Tale modello ha infatti «rivelato il suo totale fallimento. Il numero dei laureati non è aumentato, le percentuali degli abbandoni nei primi anni sono rimaste pressoché identiche, diminuiscono le immatricolazioni, si fa sempre più ristretta l’autonomia universitaria, i saperi impartiti sono sempre più frammentati e tra di loro divisi, tecnicizzati, mai riconnessi a un progetto culturale, a un modello di società».
Un fallimento che l’appello giustamente riconduce al modello statunitense: «Ma a dispetto dell’immenso fiume di risorse e la finalizzazione spasmodica delle scienze alla produzione di brevetti e scoperte strumentali, i risultati sono stati irrisori. La grande ondata di nuovi posti di lavoro qualificati non si è verificata. Anzi, gli investimenti nel sapere hanno accompagnato un fenomeno dirompente: la distruzione della middle class. […] Inseguire gli USA su questa strada è aberrante. La crisi in cui versa il mondo rivela l’erroneità irrimediabile di una strategia da cui bisogna uscire al più presto».
Per avviare la «fuoriuscita dal modello liberistico di un’Europa ormai sull’orlo del collasso» il testo formula proposte molto concrete e di buon senso, tra le quali:
 «Abolire il fallimentare sistema del 3+2dall’organizzazione degli studi e ripristinare i precedenti Corsi di Laurea, prevedendo lauree brevi per le Facoltà che vogliono organizzarli».
«Abolire i crediti (i famigerati CFU) come criteri di valutazione degli esami».
 «Noi crediamo giusto che l’Università resti pubblica, sostenuta da risorse pubbliche. […] L’organo di autogoverno degli Atenei sul piano didattico e della ricerca non può essere comunque il CdA, ma il Senato Accademico, democraticamente eletto, in modo da rappresentare equamente tutte le discipline e tutte le figure di coloro che nell’Università lavorano e studiano».
 «Occorre immediatamente dar vita a un meccanismo di rapido reclutamento di nuovi ricercatori. […] È necessario al più presto bandire concorsi per la docenza in tutte le Facoltà. I docenti (compresi i ricercatori) italiani sono i più vecchi d’Europa e i numerosi pensionamenti hanno sguarnito gravemente tante Facoltà», i cui studenti hanno visto la cancellazione da un giorno all’altro di materie da loro scelte al momento dell’iscrizione.
 «È infine necessario spendere le energie dei docenti per riorganizzare i saperi, il loro studio e la loro trasmissione nelle Università», poiché il senso della docenza universitaria affonda nella ricerca e nello studio quotidiano (“da mattina a sera”), aggiornato e scientifico e non nella burocratizzazione e nella quantificazione espressa da un lessico non a caso mercantile (debiti e crediti).
Consiglio di leggere con attenzione e per intero il Documento. La questione universitaria non riguarda i docenti e neppure soltanto gli studenti che frequentano per alcuni anni gli Atenei, ma è un ambito la cui struttura e il cui funzionamento ricadono sull’intero corpo sociale, su tutti.
In ogni caso, una vera autonomia -da sempre respiro e senso delle Università- non può essere scissa dalla disponibilità di risorse pubbliche e non soltanto di quei finanziamenti privati che potranno favorire ambiti tecnici -ingegneria o farmacia ad esempio- ma che sono improponibili per settori come quello delle scienze umane, nei quali i risultati non si vedono a breve termine -brevetti, invenzioni, innovazioni tecniche- ma sul tempo lungo della formazione di coscienze civili nutrite di saperi apparentemente “inutili” ma fondamentali. Come recitava lo slogan di una manifestazione di studenti dell’Ateneo di Catania: «La filosofia non serve, la filosofia non ha padroni».

Alberto Giovanni Biuso

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