martedì 20 novembre 2012

L’Apocalisse


Sui dolori della Tecnica, sull’anima dell’Apocalisse, sui colori della Democrazia

L’Italia è un paese a componente analfabetica strumentale maggioritaria.   Secondo dei dati Istat « nel 2010 il 46,8% della popolazione di 6 anni e più (26 milioni e 448 mila persone) dichiara di aver letto, per motivi non strettamente scolastici e/o professionali, almeno un libro nei 12 mesi precedenti l’intervista. Si legge di più al Nord e nel Centro, con percentuali di lettori superiori al 50% della popolazione. Nel Sud e nelle Isole, invece, la quota di lettori scende sotto il 37%. Le donne leggono più degli uomini: sono il 53,1% rispetto al 40,1% dei lettori » . Sanno leggere, ma non leggono. Due italiani su tre non hanno mai letto un libro, al massimo solo sfogliato con vaghezza, e nemmeno un giornale. Sono dunque analfabeti “strumentali”, “funzionali”.
Potremmo azzardare affermando che due italiani su tre non scrivono, se non per far la lista della spesa, per mandare qualche messaggio al cellulare, per mettere un voto, o per chattare sui social network. Di contro, nelle case di due italiani su tre c’è il televisore, c’è il cellulare e la mobilia “in stile”. Strumentale però anch’essa. Fittizia all’assolvimento degli obblighi moralisti imposti dalla società. Pertanto, metà o più della popolazione non possiede una cultura solida, e non ha gli strumenti per esercitare una scelta. E’ errato pertanto sostenere che “lo Stato siamo noi”. E d’altrocanto, come sostiene il linguista Tullio De Mauro, ne “La cultura degli Italiani”:«basta dire che si svolgono libere elezioni per essere certi che questo sia un paese democratico? Qualcuno corregge: non è democrazia, ma oligarchia sottoposta ogni cinque anni a un vaglio e un riorientamento».
C’è però da chiedersi se, per appartenere al luogo in cui viviamo, per “essere democratici”, possano bastare solo l’informazione, la cultura. Essa sarà l’unica medicina che automaticamente genererà in noi gli anticorpi contro l’antidemocrazia ? La cultura può indicar sempre una consapevolezza tale da essere convertibile in esercizio autentico di democrazia civica? Ma cos’è la cultura? Cos’è la democrazia? E soprattutto: la prima basta a garantire la seconda, a “renderci attuali” al nostro tempo e al nostro luogo?
Partiamo da un punto: per definizione, la parola dêmos, come populus, significa “parte”, “porzione”, “divisione”, di cui il verbo di riferimento è δατέομαι. Il dêmos è pertanto il “luogo” in cui si progettano le scelte che dividono gli individui. E se il popolo è una compagine indifferenziata, esso non potrà mai porsi in relazione dialettica con il governo. Per questo non vi è mai stata la “caduta del fascismo”. Non siamo altro che “massa”, popolo cacciatore e vittima di se stesso. Il popolo è fascistico. Perché la spiritualità di un Popolo, degno di tal nome, è quello composto da dividui, l’opposto di in-dividui. Per esercitare, per vivere la democrazia, bisogna pertanto emergere dall’indifferenziato analfabetico. E come? Il quadro della realtà odierna, applicato ai reali bisogni quotidiani,  risulta essere variopinto.
Perché ciò che accade qui ed ora è di vivere, di assistere, al commercio delle nostre vite, che ora come non mai ci sfuggono via. Vendute al mercato. Senza che da parte nostra si batta ciglio: la maggioranza non batte ciglio ! Dalla progettazione del reato all’eccidio più efferato: la poesia italiana, la filosofia, l’arte stanno esalando l’ultimo respiro. Ciò simboleggia lo strappar via dalle nostre mani la nostra esistenza su fiumi di tempo senza storie da narrare. Ciò simboleggia la distanza dello studio applicato alla vita. La causa? Una formazione adibita alla settorialità dei saperi. Il tempo per la propria ricerca personale diminuisce. E assistiamo infatti alla vittoria della tecnocrazia, dell’economia del desiderio negato, il cui centro tonale verte sulla parola greca ”techne”(ossia “tecnica”). Lo studio, dunque, non è più “l’applicazione dell’animo innamorato” (Dante,Convivio) né, tantomeno, espressione di libertà. E cos’è allora la tecnocrazia ? Secondo Ernst Jünger, la tecnica è formaGestalt. Essa è portatrice di un “valore” come la PAX TECHNICA (pace tecnica), e nella sua pericolosità è la condizione posta dalla tecnica in senso proprio. In questo senso la forma è tale perché è definita, delimitata.
E analizzandola così non indica arretratezza o progresso. Quindi nella Gestalt non c’è sviluppo storico. «La storia» osserva Jünger «non produce Gestalten, ma si modifica con la Gestalt» [da “L’operaio” , “Der Arbeiter”,1932]. Cadono le ambizioni del riformare il sistema in questi termini. E anche di proporne uno differente, più egualitario. Cade l’idea di progresso per come ce la impongono. In ciò, come spiega Boris Groys, in “The Total Art of Stalinism” « il movimento nazista si basò ideologicamente sulla teoria della razza, che implicava una percezione della natura quale orizzonte ultimo di ogni possibile azione storica » - diversamente da «la volontà di radicale artificialità, di contrasto con la natura, che iscriveva il progetto comunista sovietico nel contesto dell’arte ».  La tecnica così costituisce uno strumento incontrollabile ed ingovernabile. Perchè la tecnica ha riassunto l’uomo, generalizzato e definito ad oggetto. Perché l’uomo, il primitivo compositore di forme, attualizzandole ad oggetti, si oggettualizza. Il compositore diventa perciò operatore, servo della finalità che non gli appartiene. Messo alla gogna dal tempo standardizzato delle macchine che ha creato. Esso diventa perciò non più padre dell’opera che ha creato, ma figlio (homo faber). Figlio di Crono, un padre che non amò molto i suoi figli ! Neutralizzato con l’omologazione, banalizzato nel “suo” lavoro, zittito e senza opinione. “L’uomo è antiquato”, (Gunther Anders). La tecnica non ammette, anzi divora, il pluralismo.
Il volto della nostra epoca è quindi riassumibile alla figura stilizzata del tecnocrate, la cui spiritualità valoriale rigetta ogni forma di originalità. Originalità intesa come virtù del genio, del compositore di forme, del catalizzatore sommo del Chaos per dirla alla Duke Ellington, del Demiurgo, del propositore di nuovi contenuti. E la tecnica , con il suo carattere di spietatezza,  formalmente neutrale all’utilizzo che se ne faccia – e fattore neutralizzante, omologante, di ogni diversità -  in realtà ha assunto i caratteri dominanti dell’epoca umana, attraendo verso sé i vizi, le ideologie, i bisogni indotti che dalla rivoluzione industriale, dall’era del Positivismo , segnano l’età dell’uomo: l’età dell’estetica del lavoro, della dialettica servo – padrone (Hegel).
A partire da ciò il soggetto leader, appropriatosi del potere, ha agito tramite lo strumento della tecnica, per imporre alle masse di lavorare per lui, per la costruzione della società, con il suo linguaggio, con i suoi termini, le sue norme, e i suoi contratti . Quindi tramite la tecnica, il padrone ha rafforzato il suo potere e ha distanziato, servendosi del nichilismo e della mentalità borghese, le persone da ciò che le riguarda: la comunità. Ed ora i soggetti sono trattati come oggetti, ed i compositori come operatori. E diventano così servi dell’opera, del lavoro. E la loro produzione non gli appartiene. Esiste per loro solo l’acqua e il pane, con la loro sola fatica in omaggio. E il loro lavorare li stanca.
Da qui l’asse centrale dell’alienazione del lavoro: tramite la lingua della tecnica, e il rapporto non più dialettico tra servo-padrone. Perché il padrone ha rafforzato il suo potere, ha preso il monopolio, distrutto la dialettica, e ha impedito che il servo avesse le capacità e la forza per scalzarlo. Perché l’establishment indotto dal potere della tecnica deduce la sua forza da apparati di vari entità: dall’aggressività respirata nei calderoni partitici di ormai secolarizzati di stantìa, vecchia, datata, fattura; dalla rassegnazione dell’uomo medio, di chi preferisce “pensare alle sue cose” perché riscaldato dal suo ignavo agnosticismo deturpato ; dall’indignazione del popolo strumentalizzato da sottoprodotti d’intelligenza; dai furbi in giacca e cravatta. Ecco che l’idealismo italiano novecentesco catto-fascista, sembra avere assunto un volto diverso dal tradizionalismo dell’amor patrio: legato un tempo alla tradizione, al culto misticheggiante della romanitas, mal celando però un’identità ben più infima, corrotta, omologante e più omologata di quanto si volesse farla passare, con i classici termini di razzismo e violenza psicofisica. Il quadro contemporaneo che sentiamo come simbolo è la riproposizione della battaglia di Guernica di Picasso. Figure mozze, un bianconero tetro e mortifero, ottaedri di luce spigolosa.
Due braccia umane (o forse umanizzate?) dalla torre ad invocar provvida ventura: a necessitar salvezza come unico dono; un barlume di purezza nella bolgia di un fasto demoniaco.  Ma noi non vogliamo subire la crisi, combattiamo semmai attivamente per la fine. Per non salvarci dalla fine, bensì per provocarla. Perché la fine implica un inizio. Perché l’inizio è la porta della Rinascita. Perché l’Apocalisse è la Rivelazione all’uomo. Perché questa che viviamo oggi è una guerra, che va combattuta non con le armi, né col potere dei fiori, ma con la serietà, con il nostro grumo di sogni e di speranze che risiedono nei nostri cuori. Per il pluralismo che oggi è negato, per i nostri diritti non riconosciuti. Per la nostra felicità. Con l’amore.
Non ambiremo allora a conquistare un futuro felice, se è la realtà attuale ad essere un disastro. Perché viviamo in una città di un Paese di vecchiume reazionario, in una Città di Dormienti. In cui 2 italiani su 3 magari forse non hanno voluto, ma sono stati costretti all’analfabetismo dalla loro condizione, dalla loro povertà, dalle mancanze di prospettive in questa terra dannata. Dalla presenza di troppi professori (autoritari) e di fin troppo pochi maestri di vita (autorevoli). Di studenti sedati, avvelenati, annientati dal sonno dogmatico, dalla stasi della PAX TECHNICA.
Come superare allora questa crisi ? Mettendo fine alla storia per come ce l’hanno raccontata, vivendone, scrivendone e raccontandone una noi, con le nostre forze. Con la gratuità del gesto, distruggendo il “do ut des”. Perché questa di oggi è una guerra.  Che senso ha vivere, d’altronde, se non si ha il coraggio di lottare ?Si vis pacem para bellum !
“ Ma, quando niente sussiste d’un passato antico, dopo la morte degli esseri, dopo la distruzione delle cose, soli, più tenui ma più vividi, più immateriali, più persistenti, più fedeli, l’odore e il sapore, lungo tempo ancora perdurano, come anime, a ricordare, ad attendere, a sperare, sopra la rovina di tutto il resto, portando sulla loro stilla quasi impalpabile, senza vacillare, l’immenso edificio del ricordo.” — Marcel Proust, La strada di Swann, Einaudi, p. 52

Natale Anastasi

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