martedì 20 novembre 2012

E’ IL NUMERO DI ACCORDI CHE FORMA L’ARMONIA?


La Realtà unifica le esperienze
Conta di più un’Armonia basata su mille accordi, o un giro di Do con una melodia vitale? Bene, per rispondere adeguatamente a tale quesito sarà opportuno esplicitarne i contenuti: innanzitutto per armonia gli antichi greci intendevano la gamma dei suoni e la loro logica successione, mentre nel Medioevo diviene la combinazione di suoni concomitanti e in qualche modo affini. Quindi con armonia intendiamo qualcosa che sta insieme ad altre cose, qualcosa che si sposi insieme ad altro, in un connubio perfetto di note che risultino essere sempre consonanti. Ebbene partendo da questa primissima esplicitazione tematica è possibile, analogamente, connettersi a tematiche strettamente contingenti e collegate ad essa. Analizziamo la Modernità. Come tutti sappiamo una svolta epocale al pensiero occidentale ha avuto inizio proprio attraverso la Rivoluzione Francese e l’Illuminismo: per intenderci, questa è l’epoca della nascita delle ideologie. E queste ultime, con l’intento di spiegare la Realtà, perdono il senso della semplicità e finiscono per  smembrarla, partendo più che dalla concretezza, da un’Idea, asserendo ad archetipo più che gli enti reali, dei postulati portati all’esasperazione più estremistica. Oggi vediamo i frutti di questa sventurata semina sia nel concetto di relativismo che in quello, conseguente e strettamente collegato ad esso, di multiculturalismo. Secondo tali dottrine si annette in apparenza ogni tipo diversità – in virtù dei valori di libertà, uguaglianza e fratellanza – più per licenziosità, che per autenticità: negando però il proprio Ego nel rapporto con l’Alter, per la presunta impossibilità tra i due contendenti di giungere ad accordi, considerando anzi la diversità solo quando si manifesta in un concetto ditribù, solo quando è ghettizzata e opportunamente riassumibile in base all’etichetta conferitagli dalla catalogazione psicologica. 
Ma in tal modo, secondo tali dogmi, si può mai stabilire un rapporto autentico tra culture differenti, o meglio ancora tra singoli individui, nella forma più pura del termine? Sì può mai accettare autenticamente una diversità, o dovremmo tutti quanti sperare di trovare nell’Ego altrui, per puro narcisismo s’intende, una perfetta copia – per poterla sfruttare a nostro piacimento utilitaristico s’intende – di noi stessi? Ebbene il concetto di armonia è inter partes: non può esserci un’armonia fatta con una sola nota , essa non può fondarsi su una base esclusivamente solipsistica, secondo la legge del singolo, né può essere considerata armonia un agglomerato di note prese a caso. Infatti nella costituzione dell’animale politico vige la pura e semplice legge della concretezza, dell’attuabilità autentica del proprio vissuto. E nel caso delle ideologie storicizzate e dei credi politici messianici viene messo da parte, per superamento debolmente dialettico, tutto ciò che è difforme dal proprio pensiero.  Non è nemmeno possibile tentare degli accordi col prossimo cercando una via di mezzo: ridurre ossia il proprio Ego nel tentativo di approccio con l’Alter infatti non è una base di accordo, bensì di compromesso statico. Viene infatti estromesso il concetto di dialogo nella diversità,  di dono culturale – e non solo – che può nascere da tale comunicazione. Non vengono considerate, bensì estromesse, le ricchezze spirituali che ognuno ha e che può donare a chi gli sta accanto. Adesso, se questa fosse la regola dell’armonia, saremmo tutti riducibili al puro (s)oggettivismo: è chiaro però  che l’ipotesi non può essere realmente percorribile. Semmai è possibile sostenere tutto l’opposto, ossia che nella quotidianità del proprio vissuto è possibile abbandonare, senza spiacevoli conseguenze, almeno si spera, quella parte di noi che implicitamente si comprende di non poterla applicare alla Realtà. 
Come uscire insomma dal proprio status ideologico per volersi porre concretamente a conoscere davvero se stessi, e quindi per mettersi in gioco e relazionarsi davvero con l’Alter. Posto ciò, va fatta una precisazione: l’uomo è un dispositivo semantico – il termine dispositivo non ha da intendersi come un riferimento ad una concezione macchinica del suddetto, ma esso riguarda e si riferisce prettamente alla sua qualità formale fondamentale: la capacità tipicamente umana di interpretare, non di creare, e collegare simboli posti nella Realtà. L’uomo è quindi composto da mente , anima e corpo, da percezioni e riflessività e come tale deve essere analizzato. In tutto questo il principio di armonia è di per sé esplicativo: quando si vuol infatti ottenere della musicalità all’interno degli accordi, si cerca di trovare delle note che valgano come ponti di collegamento, delle piattaforme, sia tra gli accordi in sé, sia tra le note della melodia. Non si può esasperare un concetto a discapito di un altro se si vuole che l’ armonia nasca. Quindi per questo mille accordi slegati da una melodia non potranno mai essere definiti musica, e neanche una melodia può essere definita tale senza esser collegata ad accordi consonanti ad essa. Come insegna d’altronde il sommo maestro Platone nel suo celebre dialogo sull’Amore, Il Simposio, parafrasando un aforisma di Eraclìto: << Erissimaco: (…) Quanto alla musica, non occorre una grande riflessione per vedere che è la stessa cosa. Senza dubbio è questo che vuol dire Eraclito, benché la sua espressione non sia felice. Egli dichiara infatti che “l’uno in sé discorde con se stesso si accorda, come l’armonia dell’arco e della lira.” Ora, è molto illogico affermare che l’armonia consiste in una opposizione o che essa è composta da elementi che si oppongono ancora. Ma egli voleva forse dire che a partire da una opposizione originaria, tra l’acuto e il grave, i due elementi in seguito si accordano e l’armonia si realizza grazie alla musica. Infatti, se veramente l’acuto e il grave si opponessero ancora, non si vede come potrebbe nascere l’armonia. L’armonia infatti è una consonanza, e una consonanza è una sorta di accordo. Ora, l’accordo di elementi opposti, se permangono opposti, è impossibile, e d’altro canto non può esserci armonia tra ciò che si oppone e non si accorda: nello stesso modo il ritmo nasce dal rapido e dal lento, cioè da elementi all’inizio opposti che in seguito si accordano. (…)  la musica che introduce l’accordo tra tutti questi elementi, creando amore reciproco e accordo. E dunque la musica è essa stessa, nell’ordine dell’armonia e del ritmo, una scienza dei fenomeni dell’amore >> (Simposio 137 b – c). Purtroppo però, a quanto pare, il mondo contemporaneo ha perso il senso e il profondo significato dell’Armonia, ha smesso di creare dei ponti collegamento autentici tra culture differenti, perché ha perso il senso e il valore della propria tradizione culturale e religiosa, ed ha abbandonato soprattutto una realeposizione laica. Bene, detto ciò,  cosa s’intende per laicità?  S’intende quel termine nato nel Medioevo per distinguere il credente che viveva nel Mondo la propria fede, dal chierico, ossia colui che si consacrava agli ordini religiosi.  Il termine laico infatti è nato proprio all’interno della cristianità, partendo proprio dai dettami di Cristo, e che a rigor di logica sanciscono nella figura del Messia il primo laico per eccellenza: “ Date a Cesare quel che è di Cesare, date a Dio quel che è di Dio“ (Mc.12,17).  Con la modernità però abbiamo  assistito allo storpiamento di tale termine, lasciando campo libero ad una concezione laicista – ossia la non-interferenza della religione nella vita civile e quindi la netta separazione Stato/Chiesa – secondo cui, come sostiene il filosofo Cornelio Fabro,  “se Dio c’è non c’entra “. Tale posizione chiaramente  condiziona ampiamente la “libertà di pensiero”: un Dio infatti che non si vuole occupi la Realtà, è un Dio inutile, che non ha ragione di esistere. Da questa posizione è chiaro il risvolto pratico e teoretico: l’ateismo pratico e il moralismo etico da una parte e l’agnosticismo teoretico dall’altra, in cui, tra teoria e prassi,  è il relativismo a costituirne la base di raccordo, la tonalità per mantenerci su quanto precedentemente detto. Ma uno Stato che si definisce laico, in senso autentico, non dev’essere uno Stato neutrale, né indifferente alle diversità, bensì  uno Stato, come sostiene il filosofo Gustavo Bontadini, “che non si identifica con nessuna delle parti in causa, ma accoglie tutti i valori e tutte le culture, non è indifferente però all’identità nazionale prevalente cui esso fa storicamente riferimento”. C’è insomma, nella modernità e nell’ipotesi laicista, libertà su tutto, ma cosa sia realmente la libertà è assolutamente problematico. Chiediamoci se il senso di libertà che ricerchiamo non sia in realtà una pura forma, forse ancora inconsciamente velata, di licenziosità! Del principio di responsabilità e di autorità d’altronde si sono perse le tracce da tempo. Difatti “Se a nulla si crede, se nulla ha senso, e se non possiamo affermare nessun valore, tutto è possibile e nulla ha importanza. Non c’è pro, né contro, né l’assassino ha torto o ragione” (A. Camus). 
Torniamo difatti al concetto principe, il Relativismo, e alla conseguente mancanza di valori assoluti: tale tesi non è forse un’altra – meno propagandata ovviamente – forma di totalitarismo? Non è uno stato mentale imposto, una violenza psicologica? Non è l’ennesimo generatore di dualismi ? Sembra che, fino a prova contraria, sia del tutto arbitrario stabilire o meno la mancanza di valori assoluti, nel farsi, senza provarlo concretamente . Siamo bensì di fronte ad una forma di solipsismo, di matrice nettamente nichilista. Potremmo anzi , per meglio dire, sostenere che il Relativismo, negando la diversità, è la concezione agnostica del Nichilismo. Appunto perché la differenza autentica che vi è sta solo nella pura formalità concettuale: si può sostenere che Tutto è relativo e Niente è Assoluto, e viceversa, e senza il men che minimo sforzo, con un po’ di logica, si chiarifica come in realtà i due elementi di discussione vertano entrambi su due piani  assoluti! Nessuna differenza. Dire d’altronde che una cosa esiste o non esiste in termini assoluti implica sempre un’esistenza in forma predicazionale positiva o negativa, come ci insegna il filosofo Anselmo D’Aosta, della cosa di cui stiamo parlando. E senza neppure cadere nel puro soggettivismo, bisogna notare come le sentenze antitetiche, più o meno valide, che mirano all’universalità di ciò che costituisce la nostra materia di discussione, devono sempre essere messe in discussione, devono essere sempre verificate nella Realtà in base al confronto, al dialogo,  in virtù di un sano pluralismo che attenzioni realmente le posizioni di tutti, e che sia espressione di quanto di più onesto sia possibile. Difatti bisognerebbe sempre chiedersi se il contesto che si attacca o difende sia conforme, autenticamente e realmente, al nostro modo d’essere, o se sia semplicemente un’accozzaglia di sovrastrutture ideologiche. Inoltre, se si parla di realtà fenomenica, tesi cara all’ipotesi nichilista, sarà opportuno chiedersi  quale sia il concetto che dà validità a tale  tesi: e se non fosse mera apparenza, un’illusione, ciò che conosciamo, ma l’essenza delle cose stesse, non in senso ultimativo masimbolico, che rimanda ad Altro? La conoscenza umana può accontentarsi di definire “la pura e complessa semplicità” come un qualcosa di apparente? Può essere negazionista in toto? Tale ipotesi è fin troppo riduzionista, e limita inevitabilmente l’uomo, lo getta in un baratro senza ritorno, dando un’impossibilità conoscitiva malcelata di noumenica visione, secondo i dettami della filosofia di Kant, il principe dell’Illuminismo, per intenderci. Quali sono d’altronde le consapevolezze che stanno alla base del sostenere l’irrazionalità e/o la razionalità del reale? Ricordiamo un po’ Hegel, che nei “Lineamenti della Filosofia del Diritto” sosteneva: “Tutto ciò che è reale è razionale, tutto ciò che è razionale è reale“: per quali motivazioni vale la pena sostenere o meno, andar contro, tale pensiero? Concludiamo però dicendo, tanto per non fare di tutta l’erba un fascio,  che già sin dai primi anni del Novecento diviene più forte e deciso il dissenso nei confronti del dualismo kantiano e del soggettivismo immanentista hegeliano e viene maturata una via per il superamento di tali dogmi, che costituiscono la principale causa dell’angoscia e dello smarrimento dell’uomo di oggi. Vi è insomma la riproposizione del tema dell’impossibile (vd. Camus, Sartre, Pirandello, Montale, Pavese, ecc.), e diventa necessario il bisogno di ritornare alla concezione olistica della Realtà, in cui poter essere davvero protagonisti, stavolta con una nuova concezione di essa, di cui è emblematico questo pensiero: “ Si valuta una realtà soltanto filtrandola attraverso un’altra. Soltanto quando trapassa in un’altra. Da qui potrebbe dedursi che il Mondo, la vita in generale , si valorizzano unicamente avendo l’animo a un’altra realtà, ultramondana. […] Per capire il Mondo bisogna oltrepassare il Mondo”. (C. Pavese, “Il Mestiere di Vivere”)
Natale Anastasi

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