martedì 20 novembre 2012

La Scuola è la crisi ?

Riflessione sull’ arte della maieutica




«…Tirannide indistintamente appellare si deve ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzione delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto eluderle, con sicurezza d’impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono o tristo, uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammetta, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo». (Vittorio Alfieri, Della Tirannide, 1777)
Perché il sapere scolastico ed universitario sembra, oggi più di ieri, un luogo spesso oppresso ed infestato da erudizione e banalità fine a se stessa ? Perché ci sono troppe figure autoritarie che esercitano potere con l’unico scopo di generare soggezione, al fine di mantenere il loro potere intatto, e pochissime figure autorevoli, dei veri maestri, degli educatori nel senso più proprio del termine ? Perché manca il dialogo, perché manca la maieutica? Perché non esiste una coscienza popolare che leghi maestri e allievi ? Schiena dritta, braccia conserte, banco pulito e occhi verso la cattedra ! Guai a chi disturba ! Il normalissimo, nonché formalissimo “lei” è l’involucro simbolo della distanza . Ma perché tutto ciò ?
Perché ci si dimentica spesso dell’umanità volutamente nascosta dietro ad un numero, ad una valutazione, ad una gelida nota sul registro?  Queste domande ci pongono dentro ad un dibattito continuo, però non sempre costruttivo, sulle problematiche che ci riguardano maggiormente, come la crisi, l’alienazione, il rapporto con lo studio, la democrazia, la felicità, la libertà, il rapporto col sacro, l’amore. Ci si continua a domandare : può una conoscenza erudizionale, astratta e senza fine, senza legame con la realtà e con la comunità in cui si vive, indicarci una via per la conoscenza della realtà stessa in cui viviamo, per crescere come persone e, quindi, come collettività tutta ? Lo studio ha a che vedere con noi stessi, o siamo noi stessi?  E’  «l’applicazione dell’animo innamorato »?
Sembra davvero di essere caduti in un sonno della ragione, non più aperta alla relazione con il Mondo. Si sta pietrificando il presente perché irrigidito è il sistema di potere. La filosofia, la poesia, l’arte, ovvero simboli attivi dei cambiamenti storici, adesso sembrano davvero sostituite da un potere dominante analfabeta, strumentalista, secondo cui “Dante non si può mettere nei panini”.  E’ vero anche che, se questo governo potesse vendere il nostro patrimonio culturale, lo avrebbe già venduto, ma il tempo non è così lontano. Figli di uno storicismo erudizionale, della divisione dei saperi tecnici e specialistici, delle visioni relativistiche del mondo, ci accingiamo però a non subìre ulteriormente questi dati di fatto. Questa che, per come la definiscono, dovrebbe essere cultura non ci riguarda, ha estromesso la centralità della natura umana e delle sue domande. L’uomo è un essere storico,  costituito da bisogni indispensabili per la sua essenza, i libri gli sopravvivono e hanno valore più di lui.  Come uscire quindi da questa alienazione, da questa via che ostacola il superamento della crisi ?
Quindi, come giustamente affermava ieri Foucault in merito « […] recenti avvenimenti non stavano a significare l’arretramento dei gruppi più ritardatari di fronte ad una modernizzazione che è in sé un arcaismo […]» ( Dits et ècrits 1954-88).
Bisogna essere, ma come? Tenendo ferma la posizione di Foucault, possiamo aggiungere che una vera e propria “storia culturale” non distingue realtà ed immaginazione, perché l’immaginazione è un aspetto primario della realtà in cui viviamo. La storia culturale è diversa quindi  dalla storia nella sua essenza, in quanto non pone e non implica una distinzione tra spirito, materia, natura ed artificio, ma considera tutti questi aspetti reali e di pari importanza.
Inoltre la “fuga de cervelli all’estero”, quando interessa realmente, dovrebbe tenere in forte considerazione che il problema, magari, non è la fuga di per sé, di chi ha fatto o è stato costretto a fare una scelta, ma è il disinteresse di chi resta nel nostro Paese e che non fa nulla per modificare questa realtà in cui viviamo insieme. Infatti anche quando si sosterrebbe che il lavoro è finito, in realtà è finito soltanto il suo rapporto col profitto. Ma la condizione disastrosa del lavoratore persiste, anche se non guadagna. Il lavoratore licenziato è davvero un disoccupato ?
Quindi arriviamo alla questione delle questioni: la scuola è la crisi? La parola “crisi” infatti deriva dal termine greco “crino” che si traduce con “separare”, separare in questo caso le persone dalla propria vita e dalla propria cultura. A che scopo, a quale fine “studiare” ? A quale fine formarsi ? Ma a proposito: che vuol dire “formazione” ? Analizziamo questo termine .
Dalla ricerca lessicografica di Pierre Goguelin, si possono distinguere cinque accezioni fondamentali del termine “formazione”, articolate sull’asse dell’evento e del processo. Per formazione s’intende: l’azione con la quale una cosa si forma, viene formata, prodotta (es. la formazione del bambino in seno alla madre); l’azione di formare, di organizzare, di istituire (es. la formazione di un reggimento) ; la maniera in cui una cosa si è formata (ad es. la formazione dell’italiano, la formazione della specie); il risultato dell’azione con la quale una cosa si forma(ad es. la formazione di una catena montuosa) ; il risultato dell’azione di formare (ad es. disporre in riga) .
Quindi, mentre il senso generale del termine sembra risalire all’XI secolo, il senso pedagogico appare invece nel Dictionairre Larousse del 1908 e nella rubrica militare: “formazione dei quadri e degli attendenti , loro istruzione”.  Sembra che il termine si produca quindi a partire dai decreti che instaurano la formazione professionale (1938). A partire dal 1949 vengono introdotti metodi di training nelle imprese ed il termine diventa di uso corrente. Solo negli anni ’60 però sui dizionari integreranno il senso pedagogico della parola formazione. Quindi, dal punto di vista strettamente pedagogico, si possono distinguere tre aspetti fondamentali: il curricolo, il risultato, la qualificazione; il sistema, il piano di formazione degli insegnanti. Il processo è inteso come lavoro .
I poli semantici
Vi sono pertanto quattro poli semantici: educare, insegnare, formare, istruire .
Innanzitutto educare deriva dal latino “educare” che indica nutrire, allevare animali. Ma educare è stato probabilmente contaminato dal termine “educere”, che indica “far uscire”. Il termine è quindi incentrato sull’idea di livello e di innalzamento di livello. Non è però specifico nel suo campo di applicazione e designa sia lo sviluppo intellettuale sia fisico.
Vi è poi il termine insegnare che tende ad indicare il metodo. In latino , “insignare” indica mettere un segno, conferire una distinzione. L’insegnamento in un’istituzione i cui scopi sono espliciti è quindi un’educazione intenzionale, i metodi codificati e che è garantita da dei professionali. Insegnare è prossimo ad apprendere, spiegare, provare, dimostrare: lo scopo è la comprensione.
Il polo istruire invece si riferisce primariamente ai contenuti da trasmettere. “Instruere” significa inserire, costruire, disporre. Istruire è arredare la mente e fornire strumenti intellettuali. Istruire qualcuno è illuminarlo, iniziarlo, informarlo su qualcosa, metterlo a corrente.
“Formare”, infine, deriva dal latino “formare” e significa in una prima accezione dare la forma, organizzare e stabilire in una seconda. Esso evoca dunque un’azione profonda sulla persona che implica che l’istruzione si traduca nella vita, che sia messa in pratica.
Pertanto, è chiaro che non si  istruisce, non si educa, non si insegna, né si forma, senza acquisizione di reciproca fiducia tramite li dialogo maieutico, nonché attraverso il rispetto dei propri compiti e dei propri diritti, da cui c’è la trasmissione d’insegnamento, di formazione, di educazione, e istruzione reciproca, che suggella poi l’idea di maieutica, ma non viceversa. Inoltre è chiaro che il compito educativo e formativo spetta sia all’istituzione sociale, sia alla famiglia che allo studente. Mancando una di queste tre figure, si fallisce questo compito.
L’insegnamento come missione, l’apprendimento come libertà e non come licenza
Ma cosa c’è di nuovo in tutto questo ? Semplice: non è solo l’allievo a dover apprendere, ed il maestro a dovere insegnare, come se fossero dei ruoli statici, bensì l’allievo può apprendere solo in virtù di una sua attiva sintesi di ciò che riceve, che può quindi modificare, riplasmare e, in base alla sua esperienza personale, insegnare. Il maestro invece impara la sua missione – altro non è se non questo – dal rendere partecipe la sua vita alla gioventù che deve curare, educando se stesso al rapporto interpersonale con le nuove generazioni che gli sono state affidate. Il maestro quindi è anche un allievo, e l’allievo è anche un maestro, può spiegare al suo insegnante cosa pensa e cosa prova, come vive la sua generazione, e come poter migliorare il suo apprendimento. L’allievo è quindi il protagonista del suo percorso educativo, in questi termini. Protagonisti della formazione sono pertanto  entrambi.
L’insegnante ed il maestro, posta in una tale visione non autoritaria, autoreferenziale e fascista, ma autorevole, è quindi anche lui protagonista del suo apprendimento, forse addirittura più del suo insegnamento: motivo che sottolinea ancor di più come la professione dell’insegnante non sia una professione pari alle altre, ma è una missione. Una missione che ha senso solo se può avvicinare i suoi discepoli alla cultura, non ad un ammasso di dati codificati  ed informazioni varie che distanziate dal vissuto quotidiano non servono di certo a nessuno. La conoscenza, se reale, va condivisa.
Il maestro, se è davvero tale, deve sapere comunicare quale senso ha studiare la storia, la filosofia, l’arte, la scienza, la musica, la letteratura, le lingue, la fisica, la biologia, la geografia, e la matematica. Come possiamo quindi non innamorarci dello studio, se esso non è un corpo astratto da imparare a memoria, ma è l’espressione della nostra quotidianità che vive? E’ la nostra vita che pensa, è la nostra mente attiva e pronta a cogliere i nostri bisogni di educazione e di formazione? O siamo pronti solo e solamente all’istruzione e all’educazione come ruolo attivo dell’insegnante,  e ruolo passivo dell’allievo ? Non sarà forse da attribuire all’educazione mancata e all’istruzione forzata la causa della mancanza di democrazia? No! Troppo semplicistico! Le categorie sono astratte, sono coloro che si propongono come soli educatori ed istruttori ad imporre una morale di studio distaccato dalla vita, dalla realtà quotidiana, dalla felicità.
Senza generalizzare infatti, sia la famiglia che la scuola, l’università, in molte situazioni ancora stentano a  comprendere l’importanza di tutto ciò. Forse per paura di relazionarsi coi giovani, forse per la troppa preoccupazione, forse per il troppo amore che diventa un feticcio,  forse per non vederli crescere senza indottrinamenti, forse per non volerli vedere cadere,  stimolando in loro la libertà di scelta.  Ma ricordiamoci che si parla di una missione umanitaria, vivibile solo con umanità, non come oggetti, frustrati e senza proposte, spaventati dal dialogo, e senza voglia per continuare a crescere ed amare . C’è chi ha compreso però tutto ciò, maestri e maestre di vita non sempre considerati dalla scuola per l’esempio che danno ogni giorno senza chiedere nulla in cambio, senza apparire. Proprio perché educare, in ultima analisi, vuol dire amare.

Natale Anastasi

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