martedì 20 novembre 2012

Per la fondazione di uno stato di diritto



Il diritto oggi è sicuramente uno dei temi fondamentali su cui si dibatte con maggiore energia e da cui si diramano le più svariate problematiche . In particolar modo il dibattito verte sulla possibilità di esercitare o meno – e chiaramente fino a quale punto – la propria libertà di azione, e quale reale dimensione occupi in essa, universalmente, il libero arbitrio. Dalle questioni di bioetica, passando per le politiche proibizioniste e antiproibizioniste, dal progressismo al conservatorismo, dalla libertà di pensiero al determinismo in seno all’azione privata e pubblica, ci giunge un quadro prospettico abbastanza chiaro: esse sono tutte facce di un’ambivalenza e di una poli-struttura dei ruoli semantici assunti dall’Io nel Mondo. Ed il senso del diritto è appunto di per sé problematico, e scevro di risoluzioni, se non vengono considerati questi ambiti e i ruoli funzionali non solo al dispiegamento di un ragionamento logicamente e strutturalmente coerente, necessario in prospettiva sociale, ma anche se non si analizza come venga o meno applicato nel giusto modo da ognuno e per ognuno nelle condizioni poste nell’insieme dei fenomeni dell'esistenza quotidiana. Proprio perché il diritto, di per sé foriero di numerose discussioni aporetiche, lascia altrettanto numerosi interrogativi, quali: “cos'è il diritto?”,“dove hanno inizio i diritti?”, “cosa s‟intende e come si dispiega la libertà del diritto del singolo nella collettività e nell’idea di Giustizia?”. 

Bisogna dunque analizzare l’evoluzione storica dell’Occidente di cui il diritto, in rapporto alla Giustizia, ha mutato le consapevolezze civili e come esso stesso sia mutato con il passare delle epoche e del senso religioso. Analizzeremo come esso si dispieghi, come si colleghi e come stabilisca la propria interdipendenza con tre altrettanto fondamentali concetti: il limite, la sovranità e la libertà; tenendo presente che ciò che rende complessa una simile trattazione è il rapporto che lega l’ambito dell’agire individuale con quello dell’agire dividuale, pubblico. Esse sono due sfere che, per come si sono evolute nel corso dei millenni, sembrerebbero mettere in seria crisi una possibilità di compenetrazione semantica tra loro. Infatti già S. Paolo di Tarso fu uno dei primi a porre una prima differenza sostanziale tra la dikaiosyne teou e ladikaiosyne ek nomou ossia la “Giustizia di Dio” e “Giustizia che viene dalla legge” sostenendo che quest’ultima viene superata, non negata, dal compimento della Giustizia di Dio. Riflettendo però sul genitivo soggettivo, ciò implica che nessuno è dikaios, nessuno è giudice qui, e che la Giustizia è solo di Dio, a cui l’uomo può aderire facendo le opere secondo il Suo volere e vivendo secondo i Suoi insegnamenti. L’essere dikaios dell’uomo quindi non potrà mai essere davvero compiuto se non sarà un tutt’uno con la giustizia divina. Quindi il dikaios per eccellenza è soltanto Dio. Ma chi è Dio ? Lasciamo la risposta aperta, evitando la declinazione del solito paradigma cattolico, diversamente dal modo di sentire di S. Paolo. 

Dal nesso di verità di fede deriva quest’idea di una giustizia strettamente connessa alla giustizia divina che assume una dimensione meta-storica, meta-politica e del tutto meta-giuridica. Quindi vi è un nesso causale profondo tra la Dike (la Giustizia) e il nomos (la legge). Ma il nostro intendimento di Giustizia proviene dalla parola latina ius che indica nel linguaggio romano un’idea politico-giuridica, non avendo nella nostra lingua un termine che indicherebbe quella “giustizia divina”. Dunque siamo rimandati ad una concezione conflittuale tra l’idea di Giustizia e quella di Diritto. Le leggi della città dunque devono tentare di aderire alla legge della Dike e l’idea di Giustizia dev’essere sempre mantenuta viva per non rendere il diritto, la sfera del nomos, puramente un fatto tecnico-amministrativo. Mai pensare dunque che il diritto positivo possa in sé contenere totalmente l’idea di Giustizia. Il mantenimento di queste due sfere anzi è indispensabile per il dialogo in una società multiculturale e plurale come la nostra, che ha il compito di avvicinarsi a quell’idea di Giustizia e che deve prevedere un diritto modificabile col dibattito tra le parti in causa, impedendo che si fossilizzi su concetti dogmatici e quindi in prospettiva totalitari.
Non vi devono essere quindi scissioni a priori tra il senso di diritto e di Giustizia per il credente e per il non credente perché la Verità di fede non si esaurisce alla sua fondazione, ma indica che anzi essa debba essere indagata con la ragione (come sostiene S. Agostino) e quindi attraverso il dialogo e il rispetto verso ogni diversità di pensiero. La legge de-ve essere quindi un concetto estremamente mobile, modificabile per il benessere della collettività tutta. Ma com’è possibile tendere ad un’idea di Giustizia e al miglioramento del diritto se proprio coloro che avrebbero il maggiore interesse, i cittadini, si rifiutano di partecipare attivamente alla vita politica? A cosa dobbiamo tale estraniazione? Tutto ciò è da ricondursi al fatto che l’agire del singolo individuo, nel suo puro stato di natura, inteso proprio – e solo formalmente – secondo l’opinione comune e una certa scuola di pensiero facente capo alla sofistica greca (vd. Il Trasimaco, il primo libro de “La Repubblica” di Platone) come “atomo di egoismo” (T. Hobbes), è interessato da due sole leggi, quella dell‟oikeiosis e della pleonexia, due termini greci traducibili rispettivamente con “principio di autoconservazione” e di“sopraffazione” che, in primis, hanno un ruolo caratterizzante nell’esistenza umana in atto per sancire esclusivamente una ricerca del proprio stato di benessere. L’agire privato acquista dunque un grado ontologico di gran lunga superiore rispetto a quello dell’agire pubblico proprio perché per l’idea di auto-conservazione ciò di cui si crede di potersi fondare altro non è che l’autarchia, ossia l’autogoverno di sé.
Per essere più pragmatici in riferimento ad una dimensione collettiva, di Stato, parleremo di “tensione all’anarchia” ossia il superamento, attuato con la modernità, della concezione greco-romana, e cristiana in epoca successiva, della concezione metafisica del governo. Come possiamo ricordare in questa sede, le società arcaiche e tradizionali si fondavano dalla giustapposizione dell’interesse pubblico su quello privato inquadrandoli non settorialmente, ma coincidenti in una visione d’insieme di stampo ieratico – l’uomo infatti poteva definirsi davvero tale solo quando partecipava alla vita pubblica, e solo gli schiavi erano impossibilitati a parteciparvi. Quindi Dio crea la legge, l’uomo la riceve, e su di essa fonda la sua azione. Lo Stato tradizionale poneva al punto più alto della scala gerarchica la figura del princeps – o del sacerdote se parliamo del governo di casta – che, con l’incarico di rappresentare il tramite con Dio, incarnava metaforicamente – chiaramente in misura della concessione divina – il Logos, ossia il principio causale da cui dipendeva tutta la Realtà. Come ben sostiene ne “La Repubblica” Marco Tullio Cicerone tramite la figura di Scipione l‟Africano, il Principe è simile ad un buon padre che con amorevolezza si prende cura dei figli, garantendo loro pieni diritti e la partecipazione all’utile collettivo. La tutela del diritto del singolo nella collettività è quindi affidata ad una mente ordinatrice suprema che con autorità unifica tutti i diritti dei contraenti – i cittadini membri di famiglie gentilizie nel caso romano, gli appartenenti alle famiglie aristocratiche nella politeia ateniese – cercando di evitare gli scontri tra i diritti e gli interessi della collettività, per il raggiungimento del fine massimo a cui ispirarsi: l’isonomia, il mantenimento dell’ordine sociale. Nella societas odierna, fatta eccezione per l’istituto della Chiesa , però non vi sono figure di rilievo che possano gestire uniformemente il potere del diritto e della libertas, e , al posto del princeps, i secoli hanno decretato che il popolo, resosi “autonomo” da ogni entità metafisica, dovesse autoregolamentarsi, essere sovrano di sé, e tramite un principio di responsabilità allargato e non più esclusivo al singolo, ma collegato alla dimensione comunitaria.
Il principio di autoconservazione autarchica doveva pertanto essere superato dal concetto di demos-cratia: il potere del popolo. Sancendo però questo divorzio con la tradizione e consegnando le chiavi del potere dello Stato alla collettività tutta, le divergenze hanno acuito il problema latente generatosi secoli prima, se vogliamo esattamente dalla chiusura ideologica col proprio passato – il Medioevo, la classicità – e dall’accettazione di un nuova concezione umana nel cosmo: la filosofia cartesiana. Ebbene la filosofia, per quanto oggi sembra ai più essersi estinta, nel corso della storia occidentale ha rappresentato la culla del pensiero e del modo di pensare l’uomo all’interno dello spazio e del tempo ed è proprio tramite essa che passa la storia dell’Occidente.
E la trasformazione culturale e spirituale che ha inizio con Cartesio porta alla svalutazione e all’incomprensione con il senso dei padri, generando una frattura non più sanatasi fino ad oggi, almeno nella cultura di regime, nonostante siano passati quattro secoli di storia.
Con la nascita della filosofia cartesiana, della filosofia moderna, si getteranno poi le basi della corrente del razionalismo e dell’empirismo seicentesco e per la religione dell’immanentismo soggettivista hegeliano, e si avrà difatti ciò che nel 1789 darà il seguito alla Rivoluzione Francese e all’età dei lumi. Esattamente a Cartesio e al suo “cogito ergo sum” (“penso dunque sono”) vanno ricondotte le tracce dell’ateismo pratico che avrebbe generato l’oscura forza della Dea Ragione e le suddivisioni della Realtà in dualismi ( res cogitans – res extensa, mente-corpo, Io – Natura, fede – scienza ). E’ l’inizio dell’ “età del figlio”, dell’Io che si auto-pone e si auto-genera traendo da sé la propria forza, che deduce da sé l’essere, da cui deriva tutto il resto e che nulla presuppone, come si legge dalle pagine del “Discorso sul Metodo”.
La filosofia moderna nasce dalla messa in atto del parricidio della scolastica medievale, fortemente di matrice platonica, aristotelica, agostiniana e tomista. Si pensava difatti che l’essere dedotto dall’Ego sum potesse produrre liberamente relazione, società, comunità, ma un Ego che non presuppone la relazione come potrà fondarne una?
Oggi non è nemmeno possibile parlare di comunità autentica, perché tali condizioni non presuppongono alcuna relazione, pensando che essa possa essere un prodotto derivante dalla loro tecnica politica, economico-amministrativa. Vi è difatti un primo sintomo di quell’alienazione che si svilupperà nell’Ottocento e che vedrà contrapposte il progresso positivistico all’alienazione del lavoro (Marx). Ma analizziamo come tutto ciò avvenga e come si diffonda. Difatti questo solco si forma proprio perché l’Io penso rigetta tutto il carico dell’esistenza su un solo piano, quello fisico, e la filosofia, che essenzialmente in precedenza era legata alla metafisica, adesso si ritrova relegata al campo esclusivo ed estremamente frammentario della fisica. Dalla metafisica alla gnoseologia cartesiana si immanentizzano i tre concetti che ho citato sopra – sovranità, libertà e limite – e si assolve all’uomo ogni preoccupazione sul giudizio del proprio operato. L’uomo diventa giudice di sé. Man mano anche il giudizio sulla storia muta, proprio perché aprioristicamente con l’Io penso si estromette la trascendenza. Ma questo schema che potrebbe a molti non sembrare così catastrofico, magari proprio perché ci si rifà, con un po’ d’ ingenuità, all’emancipazione rinascimentale ed umanista che avverrà nel Cinquecento tramite le scoperte scientifiche – copernicane e galileiane su tutte .
La frammentazione di questo nuovo umanismo abbatte ogni limite alla possibilità conoscitiva, quindi a quel che è possibile definire teoresi, e da un altro lato trova risoluzioni e nuove postulazioni agli enigmi di sempre, in primis quello riguardante lo stato di natura. Infatti secondo la nuova corrente di pensiero data dalla filosofia moderna l’uomo, partendo come atomo di egoismo, si aggrega in società, riducendo la propria libertà, per avere in salvo la vita e per poter garantire a se stesso la possibilità di autoconservarsi, di sopravvivere. Come sostiene il filosofo empirista Thomas Hobbes (1588 – 1679) nel De Cive l’uomo decide di firmare un contratto sociale con i suoi simili per timore, onde evitare che possa cadere sotto la violenza della natura o per mano di un suo vicino. L’uomo è lupo per l’altro uomo (homo homini lupus). Viene estromessa l’aggregazione libera per il raggiungimento della felicità: ogni uomo può dirsi un nemico.
Questo insieme di teorie prende il nome di contrattualismo. Ed in questo stato primordiale ad essere dominante non è più la legge, non esistono né “giusto” né “sbagliato”, ma solo la “guerra di tutti contro tutti” (bellum omnium contra omnes). Ognuno ha diritto di estendere la propria libertà illimitata su ognuno e su ogni cosa. L’egoismo regna sovrano. Onde evitare però che un qualsiasi individuo possa appropriarsi del potere decisionale sullo Stato viene a prefigurarsi la preferenza per un regime assolutista e totalitario, in cui colui che governa non è sottomesso agli altri e non firma il contratto con la società. Sta bensì fuori dal diritto e dal dovere per potere esercitare nel migliore dei modi la sua funzione, e potrà essere deposto solo nel caso in cui non amministri degnamente lo Stato. Chiaramente quest’ipotesi pone un serio limite alla libertà individuale, sancendo così un forte determinismo sociale. L’uomo abbandona a poco a poco la propria partecipazione al diritto e dimentica il senso di Giustizia. Non deve risultare strano che la concezione della libertà rimanga immutata nel corso dei secoli a venire: in Fichte (1762 -1814), chiaramente influenzato dalle dottrine illuministe, la libertà avrà senso solo se garantirà l’autoconservazione di ognuno, l’auto-realizzazione dell’Io, non stabilendo però quali limiti abbia quest’Io nei confronti del Mistero. E la concezione politica di Hobbes quindi, inficiata dalla filosofia cartesiana, si espande a macchia d’olio in tutta Europa. La condicio sine qua non della filosofia politica è la seguente: l’uomo si associa in società perché determinato da cause che ne obbligano la scelta. In altri termini per la sopravvivenza della propria specie si rinuncia al libero arbitrio. Basti pensare che proprio in questa fase avverrà il passaggio netto e “spudorato” alla filosofia dello Spirito di Hegel. L’uomo quindi non viene più considerato per il suo agire retto e virtuoso, eudaimonistico, non sarà più né santo né peccatore, ma quando avrà leso l’altrui libertà verrà perseguito solo per il danno che ha commesso. Questa dimensione del superamento della colpa e l’affermazione graduale della morale provvisoria (Cartesio) relativizza però ogni agire e si può sostenere che, a partire da questa scuola di pensiero, bene e male non esistano più. Ognuno si crea la propria realtà, la propria “isola felice”, in cui non vi è confronto se non con se stessi. Postulando quindi una realtà che libera l’immaginifico dalla trascendenza e dalla metafisica, si crea la prima scis-sione con la propria interiorità: si perde la pietra angolare, le coordinate di senso, su cui si fondava l’esistenza umana.
Ciò costituisce l‟apice tragico della nostra modernità. E sarà chiaro , dal ragionamento posto, come con Hegel la potenza della dialettica del padrone e del servo sia il vero e proprio simbolo di un’età che ancora stenta a dirsi conclusa. In Hegel saltano definitivamente gli ultimi “vincoli” con la cultura scolastica proprio per-ché vi è l’appropriazione totale del reale: tutto è pensiero e senza esso il mondo di per sé non avrebbe ragione di esistere. E’ il delirio della ragione ai massimi livelli, ed un’unica soluzione per la sopravvivenza viene data: è lo Spirito Assoluto che scioglie l’enig-ma, la risposta al Mistero dell’Esistenza. Ed esso non è forse lo stesso sentimento che spinge la nostra societas, lo stesso sentimento che ci fa ignorare i segnali della natura, che ci rende gli unici protagonisti della vita, ignorando gli altri esseri viventi a discapito del benessere collettivo? Quando però si crede di potersi appropriare di tutto, soverchiando gli altri che avrebbero diritto quanto noi di esercitare la loro libertà, terremoti, maremoti e “cataclismi economici” ci richiamano alla nostra reale posizione e ci ricordano la nostra condizione di esseri mortali e non di divinità. Basti ricordare quanto avvenuto a Fukushima: gli abitanti non presero nemmeno in considerazione i divieti dei loro antenati di costruire in quelle zone, per puro delirio “tecnocratico” come potremmo definirlo. Adesso, posto che non ci troviamo certo in un periodo storico felice e florido d’iniziative, converrebbe ricordarsi il perché della nostra Democrazia.

Sulla democrazia
In Italia ben sappiamo come tra la prima e la seconda repubblica ben poche fasi possano essere definite davvero “democratiche”, tanto da mettere in dubbio, secondo molti, la validità stessa della democrazia come forma di governo. Alcuni preferirebbero tornare alla monarchia, altri al fascismo, altri ancora desidererebbero l’aristocrazia al potere, mentre alcuni “sognatori” credono ancora nel progetto statalistico marxiano. Ma ci siamo mai posti il perché dell’attuale fallimento della nostra democrazia? A chi vanno le colpe di questa crisi? Beh, sarebbe alquanto infondato sostenere che i pochi hanno vinto democraticamente sui molti, imponendo una dittatura della maggioranza senza che vi sia stato modo di contrastare tutto questo, senza che l’opposizione politica abbia contrastato davvero questo governo. In realtà, le cause del fallimento della nostra democrazia sono ravvisabili nella parola stessa: se si parla di democrazia, ossia di sovranità popolare, è il popolo a dover “pretendere” di prendere parte attiva alla vita politica, proprio come un tempo avveniva nel mondo greco e romano. Non si può credere che lasciando il governo nelle mani di uno solo si possano davvero tutelare gli interessi e i diritti di ognuno, senza che ognuno manifesti il proprio essere-nel-Mondo. Essi verranno tutelati solo se ognuno di noi acquisirà una coscienza sociale, solo se l’individualità (e non l‟individualismo) verrà fuori, altrimenti non ci sarà più motivo di sostenere né un’idea di diritto, né di libertà, né tantomeno di sovranità popolare, perché proprio da esse il nostro Io si è alienato. Non sarà nemmeno possibile sostenere una sovranità popolare se in noi stessi non arde il sentimento del libero arbitrio. E’ un nostro interesse partecipare alla vita di società, stare nella Realtà, e non si può credere che vivendo nell’ignavia più totale si possa ricercare uno stato di benessere, né tantomeno di felicità. Bisogna dunque ripensare una nostra posizione nel cosmo, tornare ad esprimersi nella propria totalità, stavolta tenendo presente che il sentimento di giustizia, la moralità, e il rispetto verso le altre creature (che come noi hanno diritti e libertà) costituiscono una realtà inalienabile.

Libertà è partecipazione (G. Gaber)

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