martedì 20 novembre 2012

Islanda: una rivoluzione silenziosa



Perché quest’estate i media ci hanno bombardato sugli scontri che avvenivano a Londra – importanti segnali di una rabbia che va crescendo, ma tristemente sterili nei confronti di una realtà che dovremmo realmente cambiare –  mentre negli ultimi tre anni non ci hanno mai parlato di quello che sta avvenendo in Islanda? Bene, crediamo sia giunto il momento di farlo da soli.
L’Islanda è un paese di 320 mila abitanti, e ha una capitale, Reykjavik, grande come Reggio Emilia. Nel 2008 ha risentito pesantemente della crisi economica. Le tre principali banche islandesi infatti, per rifinanziare i propri debiti, fecero una serie di importanti investimenti all’estero. Tra il 2002 e il 2008 la borsa sale del 900%, e il prodotto interno lordo cresce del 5.5%. Ma questi investimenti, all’indomani dell’esplosione della bolla creditizia immobiliare americana, si rivelano fallimentari. Gli investitori, per lo più inglesi e olandesi, chiedono indietro i propri soldi, facendole finire in bancarotta. Il governo così è costretto a nazionalizzare gli istituti di credito, promettendo ai cittadini che non perderanno gli investimenti in denaro, ma il valore di molti altri investimenti crolla in maniera verticale, e la Corona perde l’85% del suo valoreAlla fine del 2008 il governo si dichiara insolvente, lo stato va in bancarotta, e per ripagare i debiti nei confronti degli investitori, si rivolge, come tutti i governi fanno in questi casi, al Fondo Monetario Internazionale e all’Unione Europea. Per trovare i soldi, il governo studia un prelievo straordinario: ogni cittadino avrebbe dovuto pagare 100 euro al mese per 15 annia un tasso d’interesse del 5,5% annuo. Tutto ciò per pagare danni creati da altri, per un debito contratto da banche private nei confronti di altri soggetti privati. E’ a questo punto che la rabbia popolare esplodei cittadini islandesi scendono in piazza, ma non per un giorno, ma per ben 14 settimane cingono d’assedio il parlamento, chiedendo le dimissioni del governo conservatore del presidente Haarde. A guidare la protesta è un semplice cantautore, Hordur Torfason, nonché fondatore negli anni ‘70 del primo movimento per i diritti degli omosessuali in Islanda. Il culmine della protesta si raggiunge il 20 gennaio 2009, mentre a Washington si insedia il primo presidente afroamericano della storia degli Stati Uniti. La popolazione si scontra con la polizia, ma continuerà nella sua protesta i giorni successivi, senza cadere nell’intimidazione tesa dalle forze reazionarie. Il 23 gennaio il premier annuncia le dimissioni. Ma la gente non se ne va, chiede elezioni immediate, e una scena politica nuova. Il 1 febbraio l’Islanda ha un nuovo primo ministro, e anche questa è una rivoluzione. Si chiama Johanna Sigurdadottirprima donna, e prima omosessuale, a diventare premier dell’Islanda. A marzo 2010, dopo un acceso dibattito, viene indetto un referendum sulla tassa per ripagare Olanda e Inghilterra. Il 93% dei votanti dice “no” alle condizioni dettate dalla comunità internazionale, e il Fondo Monetario congela immediatamente gli aiuti. Il governo risponde mettendo sotto inchiesta e arrestando molti dei banchieri e i manager responsabili della crisi finanziaria.  Come ulteriore tappa di questa insolita e silenziosa rivoluzione il popolo ha eletto un’assemblea costituente per riscrivere la Costituzionetenendo conto delle lezioni apprese dalla crisi. Fanno parte di questa assemblea 25 cittadini senza alcuna appartenenza politica, eletti democraticamente dal popolo.
Ancora oggi il popolo islandese respinge i continui piani governativi di rimborso dei creditori inglesi e olandesi.I cittadini non hanno intenzione di pagare i debiti derivati dalla gestione sconsiderata delle banche e dei manager. Oggi gli islandesi stanno cercando di uscire dalla crisi inventando una nuova politica, seguendo la strada della democrazia ad oltranza, e imprimendo una svolta al paese.
Ma tutta questa storia i mezzi di comunicazione di massa hanno deciso di censurarla. Probabilmente perché avrebbe dato il buon esempio al popolo greco, o per non andare troppo lontano, a noi italiani che, non riuscendo a cacciare Berlusconi da soli, abbiamo dovuto aspettare le pressioni della Banca Centrale Europea, per poi cedere ai suoi ricatti,  tramite un governo di professori provenienti da quegli stessi ambienti finanziari che la crisi l’hanno prodotta. Il “nostro” è un governo non eletto dal popolo, e quest’ultimo, rimanendo fedele all’apatia che lo ha contraddistinto negli ultimi anni, sarà costretto a pagare come al solito la sconsideratezza di uomini che hanno pensato finora a coltivare solo i propri interessi, a scapito dei loro stessi concittadini. Gli islandesi hanno capito che per uscire da questa crisi in maniera pulita, più forti e saggi di prima, bisogna legare indissolubilmente la ripresa economica con una ripresa democratica da parte della genteL’economia, con i suoi termini, i suoi giochi, i suoi interessi, è diventata una cosa terribilmente lontana dalle necessità dell’uomo comune. Ma in Islanda sono state proprio le persone comuni, che pur non comprendendo tutto dell’alta finanza globale, hanno detto semplicemente: “No, noi non pagheremo per le colpe altrui!”.
Molti potranno rispondere che l’Islanda è un paese piccolo, dalla popolazione limitata, che lì tutto è più facile. Ma non lasciamoci compromettere da certe scuse! L’importante è capire il concetto che per uscire da questa crisi, dobbiamo cambiare la politica del delegare tutto a pochi, e ciò comporta prenderci le nostre responsabilità. Anche in Italia abbiamo degli esempi, e consistono nei vari movimenti che da nord a sud (dai “No Tav” ai “No Ponte” di Messina, dai “No dal Molin” ai “No Muos” di Niscemi), hanno restituito di nuovo senso alla parola comunità! Comunità come gruppo solidale di persone interessata alla difesa del proprio territorio, della propria esistenza, del proprio valore civico e collettivo, in antitesi all’individualismo, alla solitudine, al conflitto fra individui che vige nella società come la intendiamo oggi.
Gabriele Pizzuto

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