martedì 20 novembre 2012

Ivan Illich non è morto



È l’epoca in cui si inneggia al ritorno di Marx («è più vivo che mai e continua a denunciare le contraddizioni di un mondo capovolto», scrive Fusaro), il che segnala, comunque lo si giudichi, che c’è un orientamento tangibile a riaprire il capitolo di un certo pensiero radicale che si reputava ormai morto e sepolto. Tanto basta per chiedersi se non si è stati troppo frettolosi nell’accantonare il formidabile progetto teorico di Ivan Illich: la descolarizzazione. In fondo, ogni pensiero radicale ha un vantaggio e un limite: il vantaggio è quello di andare al nocciolo della questione evitando inutili involuzioni su aspetti di contorno; il limite è l’apparire vacuamente paradossale – ma si trascura così che il parádoxon ha una parentela strettissima con ogni filosofia che abbia esercitato effetti a lungo termine nella storia della cultura. Certo non si mette in discussione che Illich abbia patito il condizionamento di un’atmosfera culturale nella quale inalberare il vessillo dell’anti-istituzionalismo era per molti questione d’etichetta (ma, senz’altro, non è il suo caso); neppure si vuole ripristinare l’impianto classista che sorregge la sua opera.
Rimane l’insegnamento sulla discutibilità dell’assioma su cui si incardina il sistema scolastico ed ogni istruzione istituzionalizzata: l’assioma per cui l’apprendimento può essere, ed è, frutto di un insegnamento forzoso, rituale e organizzato istituzionalmente in modo programmatico. C’è un dato di fatto difficilmente controvertibile a suffragare tale critica: «i più acquistano la maggior parte della loro cultura fuori della scuola, oppure anche a scuola, ma solo perché la scuola in alcuni paesi ricchi è diventata un luogo in cui si passa segregati una parte sempre crescente della propria vita» (Ivan Illich, Descolarizzare la società, Milano, Mondadori, 1a ed. 1972, p. 37). La scolarizzazione, intanto, procede per inerzia, non interroga più il postulato, in verità piuttosto indefinito, che vale come sua ragion d’essere e che la cultura odierna ha supinamente assorbito. Se si proiettasse un fascio di luce sul nucleo profondo e oscuro dei sistemi scolastici si potrebbe forse dissipare la confusione tra «processo e sostanza»: si presuppone che ad un ‘processo’ estrinseco e meccanico di insegnamento – che si conforma a parametri prestabiliti e scarsamente flessibili – segua naturaliter la ‘sostanza’, ossia l’apprendimento degli scolari. Un supposto automatismo che non è stato corroso dal tempo, è semplicemente arrugginito nella sua essenza. Tanto più, aggiungerebbe Illich, che delegare all’istituzione il compito di educare al sapere è causa di «impotenza psicologica», nel senso che mette ciascuno a proprio agio nell’idea che il sapere sia qualcosa cui ci si asserve e che non richiede privatamente un impulso ad esplorarlo – critica che è bene considerare in termini sociologici, ovvero sul piano generale delle pressioni culturali: «[...] facendo abdicare gli uomini alla responsabilità del proprio sviluppo, ne conduce molti a una sorta di suicidio spirituale» (Ivi, p. 104).
Gli interventi riformatori sull’istituzione scolastica dimenticano questo estremo termine di confronto, il che equivale grossomodo a preoccuparsi dell’arredamento e della decorazione dei locali superiori di una nave che potrebbe avere un grosso e pericolosissimo squarcio nella chiglia.
Illich contrappone alle «istituzioni manipolatrici», delle quali la scuola sarebbe figura emblematica, le «istituzioni conviviali», che si contraddistinguono perché si pongono al servizio degli individui lasciando loro ampio margine di iniziativa, idonee se non altro a stimolare le passioni e la partecipazione (qualcosa che ricorda alla lontana, sia detto di sfuggita, la platonica «luce che si accende da una scintilla di fuoco» improvvisamente, che sostanzia la vera cultura, e che è quantomeno bizzarro credere di poter alimentare con uno standardizzato sistema scolastico). Conviviale è, nel pensiero di Illich, una struttura reticolare, accessibile e non dominata da pesanti gerarchie che fanno impallidire per la loro vertiginosa verticalità: intuizione modernissima, se consideriamo che ai nostri giorni la ‘rete’ è paradigmatica delle trasformazioni in ogni settore.
Davide Rondoni, in Contro la letteratura, ha sollevato il problema della letteratura che languisce inesorabilmente per com’è insegnata nelle scuole. La soluzione che propone è davvero poco audace (renderla facoltativa), e oltretutto qui si accampano ragioni differenti, dato che ci sono implicazioni estetiche: se leggiamo Leopardi a scuola, in un ambiente che ispira costrizione e noia, inaridiamo anche la nostra capacità di fruire esteticamente della sua poesia. Ma Rondoni comunque ha richiamato l’attenzione su quel caposaldo inconcusso, ma fallace, per cui la scuola è opportuna o addirittura necessaria, e sul fatto che essa può anche causare danni, persino permanenti, se non si accorcia in qualche modo, con cognizione di causa, il suo raggio d’azione.
Si è scritto sul descolarizzare l’istruzione che non significa esattamente descolarizzare la società, giacché Illich adottava quest’ultima espressione per designare quel processo il cui esito sperato era la più generale liberazione dal mito stesso dell’istruzione scolastica che, a suo giudizio, appesantiva e influenzava anche le menti non scolarizzate, instillando illegittimamente in esse un senso di inferiorità: è ancora operante questomito? È difficile stabilirlo, probabilmente si è smussato nel corso del tempo, anche perché è diventata davvero esigua – limitiamoci all’Occidente – la porzione di popolazione che non ha in qualche misura usufruito dell’istituzione scolastica. Direi che questa è la parte del pensiero di Illich che ha maggiormente risentito del deterioramento provocato dagli anni che sono intanto trascorsi.
La temperie culturale non è più quella degli anni ’60, tanti ideali di trasformazione della società si sono rivelati effimeri e sono precipitati in un meritato oblio, ma è un’esigenza recuperare l’interrogativo che Ivan Illich ci ha consegnato: la scuola è davvero necessaria, opportuna o, addirittura, accettabile?

Fabio R. Furnari

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