martedì 20 novembre 2012

Un’invenzione dell’uomo: il nonluogo


“Una volta l’uomo aveva una anima e un corpo, oggi ha bisogno anche di un passaporto, altrimenti non viene trattato da essere umano.”
(Stefen Zweig, Il mondo di ieri).

Con questa affermazione Zweig inquadra alla perfezione la condizione in cui verte oggi l’uomo moderno, vittima di un processo di spersonalizzazione la cui velocità è andata aumentando negli ultimi anni. Era solo il 1946 quando Zweig scriveva la sua opera “Il mondo di ieri”. L’uomo che una volta si identificava con i suoi simili attraverso il dialogo, le passioni, la conoscenza ora sembra essersi smarrito. Difficilmente trova la propria identità e forse non la cerca neppure. Perché? Cos’è che ostacola l’uomo e la ricerca di se stesso? Il consumismo ha cambiato l’uomo radicalmente, creando appositamente per lui dei luoghi che frequenta di certo per non interagire con i suoi simili. Già, i luoghi. I numerosi e illuminati centri commerciali, i maestosi cinema multisala, gli affollatissimi aeroporti, tutta una serie, insomma, di posti che accolgono migliaia di persone, o meglio, migliaia di clienti. L’uomo che diventa cliente, di questo si tratta. I clienti che si incontrano il pomeriggio in un centro commerciale trovano la loro dimensione comprando, spendendo, valutando i prezzi, confrontando le merci e i prodotti. Il trionfo e il vanto di questa società moderna sta nei saldi e nelle liquidazioni. La tomba dell’uomo moderno, dei suoi rapporti con se stesso e con gli altri è il centro commerciale, è il multisala, è la vetrina. Pian piano ci si rende conto che il processo di spersonalizzazione dell’uomo di cui parlava il nostro Zweig più di sessant’anni fa, adesso ha raggiunto il suo culmine attraverso un’invenzione dell’uomo stesso: il nonluogo.
Marc Augè, antropologo belga, definisce i nonluoghi spazi in cui identità e relazionalità sono decisamente esclusi, posti di transito caratterizzati dall’individualismo della singola persona che, attratta dalla bellezza della struttura, dalle luci, dalle vetrine e dalla confusione, si chiude in se stesso intrattenendo rapporti solo con la merce, le etichette, gli scontrini. Nel concetto di luogo, invece, Augè individua tre caratteristiche fondamentali: il luogo è identitario tale da contraddistinguere l’identità di colui o colei che ci abita; il luogo è relazionale, poiché determina i rapporti che intercorrono tra le persone; è storico in quanto stimola l’individuo a ricordare le proprie radici. Caratteristiche che mancano al nonluogo per eccellenza, cioè il centro commerciale, dove con i suoi negozi, le sue catene di ristoranti, i fast food, la gente fa la fila, paga, guarda insegne e vetrine ritrovandosi catapultata in una realtà desolante, priva di identità, di relazioni, e soprattutto di ricordi.I ragazzi, adolescenti catturati dall’attrattiva del centro commerciale, prediligono  questi nonluoghi come punti di ritrovo; i viaggiatori, allo stesso modo,  sono attratti più dal grande magazzino che dai piccoli negozi che si trovano nei centri storici delle città che vanno a visitare.
La lista delle tipologie di nonluoghi è varia, non solo centri commerciali, ma anche cinema multisala, aeroporti, stazioni, tutti spazi dove l’individuo è al di fuori di un gruppo sociale e da qualsiasi tipo di aggregazione spontanea con altri individui. Ma non si tratta solo di strutture delle nostre città. I social network rappresentano un altro modo di concepire l’idea di nonluogo e il fenomeno Facebook ne è un attualissimo esempio. Qui ovviamente non si vuole mettere in discussione l’utilità che ha Facebook in termini di velocità di comunicazione e soprattutto di informazione, ma è altrettanto vero che un numero considerevole di persone interagisce vicendevolmente molto spesso per caso o per gioco, senza un vero interesse, preoccupati dal numero di amici che devono accumulare, attenti ai messaggi che arrivano in bacheca e ai pettegolezzi. Una sorta di nonluogo virtuale non ancora completo, ma che si trova sulla buona strada per esserlo, poiché è sempre più il grande il numero di persone che sacrifica la propria vita sociale, preferendo ad essa una vita virtuale sul web priva di sostanza relazionale.
Ciò che stiamo perdendo è, in breve, la genuinità della nostra stessa personalità. È come se all’improvviso non ci importasse più di essere, ma solo di apparire. La stessa omologazione, termine che racchiude in sé tutto il male del consumismo del nostro tempo, è l’arma in più di cui si serve il nonluogo per colpire. La semplicità del dialogo, la ricerca del confronto, la bellezza del dibattito stanno morendo a suon di slogan promozionali, fredde strette di mano tra clienti e cassiere, numeri, codici a barre, ma anche di profili, tag, bacheche, trilli e via discorrendo. L’insicurezza che ci trasciniamo giorno dopo giorno nel instaurare nuovi rapporti con altre persone è il motivo che ci spinge a frequentare questi inquietanti nonluoghi, dove l’anonimato diventa un qualcosa di forte e rassicurante. Abbiamo paura di conoscerci. Preferiamo la banalità della massa, che non fa domande, che non cerca il dialogo, che con la sua metodicità trascorre le ore senza il minimo problema in fila, davanti alla cassa di un noto negozio, mentre guarda le luci e odora nell’aria per rintracciare da dove vengono gli odori che sente nell’aria, oppure davanti al computer alla ricerca di un “amico” per trascorrere qualche ora felice, senza calarsi mai nella vera comunicazione.
La carta di credito o il profilo di Facebook sono allora quel passaporto di cui parlava Zweig nella sua opera “Il mondo di ieri”, che sembrano dire tutto di una persona, raccontando con cifre o poche e brevi affermazioni la sua vita, ma che ovviamente non dicono niente. Anima e corpo sembrano superflui. Cosa fare? È chiaro che il nonluogo non può essere distrutto al momento. Si tratta di un’invenzione dell’uomo che sfrutta l’essenza dell’uomo stesso e cresce senza dar segno di volersi fermare. Ma in giro, per strada, nelle università, nelle scuole, nei posti di lavori e anche su internet c’è tanta gente ancora che trascorre le proprie ore semplicemente a parlare o a scrivere, e lo fa non solo per se stessa, ma soprattutto per gli altri ed è molto probabile che sia questo ciò di cui la nostra società ha bisogno: il recupero della pura e semplice comunicazione. La comunicazione come mezzo per conoscere, per crescere, per vivere, per tornare ad essere e smettere di apparire.

Attilio Occhipinti

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